Kim Robinson - La Costa dei Barbari

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2047: l’America soffre le conseguenze di un attacco nucleare portato a termine in maniera insospettabile da esecutori di nazioni diverse. Da quasi sessant’anni la più grande potenza mondiale è regredita a un’economia di pura sussistenza, e le comunità vivono un’esistenza separata, ristretta ognuna ai propri confini. Lo stato subisce una quarantena mantenuta con ferrea disciplina dalle squadre di sorveglianza militare giapponese e avallata dalle Nazioni Unite.
È in questo scenario apocalittico che si svolge la vicenda di Henry Fletcher, un giovane della comunità californiana di San Onofre, che per il suo sostentamento dipende interamente dalla pesca e dai raduni di baratto che si svolgono periodicamente nella valle. Dopo l’arrivo di alcuni viaggiatori di San Diego che hanno osato sfidare la vigilanza dei guardiani giapponesi. Henry viene gradualmente a conoscenza del nuovo mondo e delle sue insidie. La sua guida spirituale è Tom, l’uomo più anziano della valle, sopravvissuto alla catastrofe tristemente nota come II Giorno.
La scoperta di un mondo da cui gli americani vengono ingiustamente esclusi, il contatto con gli “stranieri” che vivono a pochi chilometri di distanza, le testimonianze di chi è riuscito a sfuggire alla prigionia in patria trascinano il giovane in un’avventura che segna la fine dell’adolescenza e la transizione verso la maturità, a cui si accompagna la speranza della redenzione per il popolo americano.

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Di tanto in tanto uno dei due sciacalli (presumo che lo fossero, anche se erano vestiti da paesani) rideva e prendeva in giro Addison a voce più alta, permettendomi di udire frasi intere. «Facile far fesso un fesso» disse uno. Add rise alla battuta. «Ci tornerà tutto indietro fra un paio di mesi» disse l’altro, indicando la sacca di Add. «Alle nostre puttane, almeno!» sogghignò il primo. Il giapponese guardava di volta in volta chi parlava e non rise mai alle battute. Rivolse ad Add ancora qualche domanda e Add rispose, almeno credo: mi voltava la schiena, quindi non lo udivo affatto.

E poi, sotto i miei occhi, i tre risalirono sulla barca. Add slegò la fune e la gettò a bordo, spinse l’imbarcazione, la guardò scivolare a valle. I tre sparirono subito alla vista, ma udii il motore accendersi. Era tutto. Non avevo appreso niente che già non sapessi. Premetti il viso contro gli aghi di pino e ne stritolai alcuni fra i denti.

Add continuò a guardare la barca per un paio di secondi, poi mi passò accanto. Restai disteso, immobile, per un poco; poi mi alzai e gli andai dietro. Presi addirittura a pugni qualche albero, passandogli vicino. E non vedevo Add da nessuna parte. Rallentai, furioso e frustrato al punto da non sapere se volevo sprecare pazienza a pedinarlo. Cosa ne ricavavo? Ma l’alternativa, tornare a Onofre da solo, era anche peggiore. Cominciai ad avanzare tracciando ampie diagonali, danzando di nuovo fra gli alberi in una corsa silenziosa.

Non lo vidi finché non mi colpì con una spallata che mi buttò a terra. Estrasse dalla cintola un coltello e mi assalì, cadendomi quasi addosso. Rotolai su me stesso, con un calcio lo colpii al braccio, poco sopra il coltello; mi contorsi, lo scalciai al ginocchio; mi alzai, schivai, lo colpii sul collo a mani unite, sempre muovendomi con la massima rapidità possibile. Lui andò a sbattere contro un albero, si accasciò, stordito; gli strappai rapidamente la sacca dalla sinistra e balzai indietro per evitare una coltellata. Tenni sollevata la sacca, come se fosse una mazza, e mi ritrassi in fretta.

«Resta fermo lì, altrimenti scappo e non rivedrai più la sacca» lo apostrofai. Senza riflettere, aggiunsi: «Sono più veloce di te, non mi prenderai mai. Nessuno mi raggiunge, nei boschi.» E risi di trionfo, nel vedere la sua espressione, perché era vero e lui lo sapeva. Nessuno è più veloce di me. E sconfiggere fra gli alberi Add e il suo coltello, più veloce del pensiero, più veloce di quanto mi occorreva per decidere le mie mosse, me ne dava la sensazione esatta. Anche lui lo sapeva. Finalmente, finalmente, avevo Add Shanks dove lo volevo. Con la mano libera Add si massaggiò il collo, lanciandomi la stessa occhiata d’odio che avevo visto negli occhi della donnola in trappola. «Cosa vuoi?» domandò.

«Non voglio molto. Non voglio questa sacca, anche se sembra contenere un bel po’ d’argento e magari roba ancora più importante, eh?» Forse non avevo indovinato il contenuto, ma una cosa era certa: rivoleva la sacca. La fissò, si mosse in avanti, ma io arretrai di tre passi, spostandomi anche sulla destra, dove avevo una via di fuga fra gli alberi. «Mi sa che Tom, John, Rafael e gli altri sarebbero molto interessati a vedere la sacca e a sentire quel che ho da dire al riguardo.»

« Che cosa vuoi?» ringhiò.

Per niente intimorito, ricambiai lo sguardo carico d’odio. «Non mi piace come hai approfittato di me» dissi. Il coltello gli sobbalzò in mano; pensai: “Non fargli capire quanto ne sai”. «Voglio vedere uno sbarco di giapponesi nell’Orange County. So che scendono a terra e so che sei d’accordo con loro. Voglio sapere dove e quando ci sarà il prossimo sbarco.»

Parve perplesso; abbassò di una spanna il coltello. Poi sogghignò, sempre con quell’espressione di odio. Trasalii. «Ah, già, sei in combutta con gli altri ragazzi, giusto? Il giovane Nicolin, Mendez e il resto.»

«Sono da solo.»

«Mi spiavi, vero? E John Nicolin non ne sa niente, scommetto. Niente.»

Sollevai la sacca. «Dimmi quando e dove, Add. Altrimenti la porto nella valle e tu non ci metterai più piede.»

«Ce lo metterò eccome!»

«Facciamo la prova?»

Arricciò le labbra in un ringhio. Tenni duro. Lo guardai riflettere. Poi Add sogghignò di nuovo, in un modo che non capii. Pensai, allora, che facesse come la donnola, che mostrasse i denti in un ultimo ringhio feroce, prima di morire.

«Sbarcheranno a Dana Point questo venerdì. A mezzanotte.»

Gli gettai la sacca e corsi via.

All’inizio corsi come un daino braccato, saltai tronchi caduti, schiantai piccoli cespugli, approfittai del lusso di fare rumore. Ora avevo paura: forse, con la sacca, gli avevo gettato una pistola; oppure lui era un abile lanciatore di coltelli e mi avrebbe trapassato con la lama pesante che impugnava. Però, attraversata gran parte della valle San Mateo, capii di essere al sicuro, e continuai a correre solo perché ero felice. Trionfante, danzavo fra gli alberi, superavo a salti cespugli che avrei potuto scansare, strappavo piccoli rami che mi ostacolavano. Corsi fino all’autostrada, proseguii in discesa a tutta velocità. Non credo di avere mai corso più rapidamente in vita mia, né di essermi divertito tanto. «Venerdì notte!» gridai al cielo e volai sull’asfalto, come un’automobile: il nodo allo stomaco era finalmente scomparso.

18

Ma il nodo ricomparve presto. Attraversai di corsa la valle e andai dritto a casa dei Nicolin, ma la signora N. seppe dirmi solo che Steve era da qualche parte con Kathryn. La ringraziai e me ne andai; già mi sentivo a disagio. Steve e Kathryn litigavano di nuovo? Cercavano di rappacificarsi? Kathryn l’aveva convinto a lasciar perdere? (Questa ipotesi pareva poco attendibile.) Controllai alcuni dei nostri soliti luoghi di ritrovo; non ci tenevo molto a trovare Kathryn, ma desideravo vedere Steve al più presto. Non li trovai da nessuna parte. E non avevo indizi per scoprire dove fossero, né che cosa facessero. Mentre risalivo un’altra volta Swing Canyon, mi resi conto che quei due non li capivo più, se mai li avevo capiti. Che cosa si fa, dopo una lite come quella che avevo ascoltato di nascosto? La vita privata di altre coppie… una delle cose più riservate che esistano. Anche se ne parlano con altri, solo i diretti interessati sanno cosa succede realmente tra loro. E se non ne parlano, il mistero è assoluto, nascosto al mondo.

Questo, mercoledì sera. Tornai dai Nicolin due volte, quella notte, ma non trovai nessuno. E più non riuscivo a raccontare tutto a Steve, più mi sentivo a disagio. Che cosa avrebbe detto, Kathryn, quando avesse saputo la mia parte nella faccenda? Avrebbe pensato che le avevo mentito, che avevo tradito la sua fiducia. D’altro canto, se non avessi parlato a Steve dello sbarco, se avessi lasciato passare venerdì… e se mai lui l’avesse scoperto… bene, non meritava neppure pensarci. Avrei perso sul momento il mio migliore amico.

Dopo la seconda visita notturna ai Nicolin, tornai a casa e andai a letto. Era stata una gran giornata, pensavo di non riuscire a prendere sonno; ma dopo qualche minuto dormivo già. Però un paio d’ore più tardi mi svegliai e per il resto della notte continuai a rigirarmi nel letto; ascoltai il vento, meditai su come comportarmi.

Subito dopo l’alba mi svegliai, di nuovo con quel nodo allo stomaco; e cercare di riprendere sonno non faceva altro che peggiorarlo. Avevo la vaga impressione d’avere fatto un sogno così orribile che non avevo nessuna voglia di ricordarlo più chiaramente… in sogno mi davano la caccia… ma dopo qualche istante non ero nemmeno sicuro d’avere sognato. Come tutte le mattine uscii a orinare e scoprii che s’era alzato il vento Santa Ana, quel vento del deserto che soffia dalle montagne orientali, spinge a mare le nubi, scalda la terra, secca ogni cosa. Il Santa Ana colpisce tre, quattro volte all’anno e cambia completamente il nostro clima. Questa volta già aumentava d’intensità e piegava gli alberi in senso opposto alla naturale inclinazione dovuta al vento di mare. Presto avrebbe spezzato i rami dei pini e li avrebbe trascinati verso l’oceano.

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