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Fritz Leiber: Il verde millennio

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Fritz Leiber Il verde millennio

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Nella solitudine della stanza in cui egli si ritrovava, la sua avventura allucinante gli stava passando davanti agli occhi. Si era sentito un altro, quel mattino, svegliandosi, quando aveva visto sul davanzale quel gatto stranissimo dal mantello di un verde smeraldo. La fuga del gatto, la visita allo psichiatra erano venute dopo; e poi, via via di seguito tutti gli altri fatti strani. Allucinazioni, sì. Ma qualcosa di vero sarebbe rimasto. Lo sdoppiamento del suo io sarebbe arrivato a qualcosa di concreto: una essenza di vita più buona, un mondo migliore in cui avrebbero agito una creatura di un altro mondo e una interminabile teoria di gatti dai mantelli tutti verdi.

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Phil aprì la portiera e fece per uscire. Soltanto allora Mitzie sembrò accorgersi della grande insegna luminosa e si rese conto che l’indirizzo era quello dello stadio di lotta della Divertimenti SpA. Si sporse attraverso il sedile mentre lui era già sul marciapiede e si voltava per chiudere la portiera.

— Così è questo che ti interessa! — gli gridò con rabbia, mentre la maschera si gonfiava e sgonfiava al ritmo del suo respiro. — Mi respingi, arricci il naso di fronte ai miei amici e ai miei modi, sei superiore alla violenza e al sesso, e poi non pensi ad altro che a soddisfare i tuoi istinti guardando lottare uomini e donne! — Per un istante, prima che gli sbattesse la portiera in faccia, dei lampi sembrarono scoccare attraverso i buchi per gli occhi della maschera. — Io almeno i miei divertimenti me li godo in prima persona, piccolo verginello schifoso!

6

La folla che usciva dal corridoio cancellò via da Phil lo spiacevole ricordo degli epiteti di Mitzie. Si fece strada rasentando la parete, schiacciato e pestato, preso a gomitate, semiasfissiato da nuvole grigio-azzurre di tabacco e di cosiddetta erba venusiana, deliziato da commenti del tipo: «Avrebbe potuto sbarazzarsi di lei tutte le volte che voleva.» E: «Proprio non le sopporto quelle stupide donne giudice!»

Finalmente venne risucchiato da un vortice di folla vicino al corridoio laterale. Senza molta speranza boccheggiò: — Juno Jones. — Il Vecchio Bracciodigomma sussurrò raucamente: — Entra pure amico — e inarcò leggermente il suo braccio grigio per lasciare passare Phil, mentre col resto della sua lunghezza si sforzava di trattenere un improvviso flusso di gente e con l’estremità bloccava un tipo vestito di marrone con gli occhi fuori delle orbite che aveva cercato di infilarsi dietro di lui.

Phil si asciugò la fronte e respirò profondamente. Si sentiva un po’ incerto sulle gambe ora che non c’era più la calca. Una donna uscì dalla porta di fronte. Era vestita in modo sciatto, ma vistoso: un lungo abito informe, scarpe coi bottoni, cappello a larghe tese con dei fiori, collo di pelliccia e guanti. Sembrava una donna delle pulizie di una volta, col vestito della festa. Non la riconobbe finché la folla dietro di lui cominciò ad acclamarla, scandendo il suo nome: — Juno! Juno!

Lei li salutò con un gesto della mano, ma i suoi occhi erano fissi su Phil.

— Ehi, sono felice di vederti — disse afferrandolo per un braccio. Poi gli mormorò: — Non fare domande. Vieni con me — e lo trascinò lungo il corridoio, lontano dalla gente.

Le grida della folla si fecero deluse e un po’ irritate. Una voce acuta si udì sopra le altre: — Dove vai con quella mezza cartuccia?

Juno si voltò di scatto e si piantò di fronte a loro: — State a sentire, babbei! — tuonò, e la folla si zittì, mentre il lampo di un flash la illuminava. — Lo so che sono la vostra eroina, e ne sono felice, ma anch’io ho diritto alla mia vita amorosa! E non permettetevi di offenderla!

Mentre la folla scoppiava a ridere e riprendeva ad acclamarla, Juno spinse Phil attraverso una porta. — Spero che non ti spiaccia quello che ho detto. Sono i miei ammiratori, e devo tenermeli buoni.

Phil scosse la testa, un po’ confuso. Si aspettava che lei si fermasse non appena fuori degli sguardi della gente, invece continuò a spingerlo lungo uno stretto corridoio.

— Stai a sentire, ehm… — cominciò con voce ansiosa.

— Phil — disse lui. — Phil Gish.

— Phil, senti, vuoi venire a cena con me?

— Certo — disse Phil.

— Bene. — Sembrò sollevata, ma non smise di guardarsi intorno con fare apprensivo mentre continuava a camminare in fretta. — Conosco un buon ristorante. Un posto tranquillo, dove fanno dell’ottimo coniglio allo spiedo. — Raggiunsero una stretta scala immersa nell’ombra. Juno lo fece voltare da quella parte, ma mentre Phil stava per salire lo tirò indietro. — Non di lì, Phil, per carità — lo avvertì. — Si va dritti da Billig e dalle vespe. Il posto che dico io è al livello inferiore. — Cominciò a scendere. — Potevamo prendere l’ascensore, ma di qui è meglio. Più privato — aggiunse con tono burbero.

Alla fine delle scale una porta stretta immetteva direttamente in una sala buia con un bancone che correva lungo una delle pareti e di fronte si apriva una fila di separé. A giudicare dalle cromature annerite doveva risalire al 1960. I clienti erano camionisti, poliziotti e altri individui meno identificabili. Vicino alla porta da cui erano entrati c’era quella dell’ascensore. Juno agitò una delle sue manone verso un paio di tizi e gridò a qualcuno: — Whisky e braciole, e che siano ben cotte. Tu cosa prendi, Phil?

Lui si ricordò che non mangiava dal giorno prima e mormorò qualcosa a proposito di un sandwich di fermenti e di un bicchiere di latte di soia. Lei gli lanciò una strana occhiata ma non fece commenti, poi lo prese nuovamente a rimorchio. Rispose ad alcuni saluti ma senza intrattenersi, e sembrò sollevata di scaricare Phil nel separé vicino alla porta d’ingresso, dove più forte era il rumore dei camion. Le luci dei fari, mescolate con quella dello specchio al sodio, lampeggiavano attraverso il plastivetro graffiato e polveroso. Ma, cosa straordinaria, non c’era traccia di jukebox o di radio di sorta nel locale. I bottoni sulla parete a fianco del tavolo portavano l’indicazione di cibi sintetici ormai inesistenti, con un cartello di FUORI SERVIZIO che doveva avere almeno vent’anni.

Phil studiò la sua compagna, seduta di fronte a lui, e si rese conto che doveva averle prese parecchio. Sulla mascella portava ancora i segni di un brutto colpo, malamente coperto da un trucco frettoloso. Juno aprì la borsetta, agitata come una ragazzina timida, e cominciò a incipriarsi la mascella. Poi ci rinunciò, mise via la cipria e si piegò in avanti appoggiando sul tavolo i grossi gomiti.

— Non crederci se ti dicono che gli incontri sono truccati — disse accigliata. — Zubek si è fatto scoppiare le budella per cercare di battermi stanotte.

— Hai vinto? — chiese Phil.

— Oh, certo. Due cadute, un avvitamento e una caduta libera… Vuol dire che l’ho fatto volare fuori e non è più tornato indietro.

Un vassoio scivolò lungo il banco del bar. Juno si alzò e lo prese ancor prima che Phil si rendesse conto che era per loro. A giudicare dalla velocità con cui era stato eseguito l’ordine, Phil decise che dovevano servirsi ancora del forno a raggi infrarossi. I pezzi di coniglio di Juno erano grossi quanto delle piccole bistecche (doveva essere come minimo un coniglio ottoploide), mentre il whisky era scuro e abbondate. Phil assaggiò il sandwich e lo trovò passabile, sebbene si sentisse sempre a disagio quando mangiava in un ristorante non meccanizzato.

Mentre Juno masticava le braciole e beveva whisky gli accennò alla storia della sua vita. Phil seppe così che era una ragazza di campagna, venuta ancora giovane in città, che aveva sofferto le solite disillusioni. — Come fa una ragazza a cavarsela di questi tempi? — chiese a Phil. — Specialmente una grande e grossa come me? Non che avessi un brutto personale, ma anche allora ero troppo grossa e forte. Facevo spaventare gli uomini, e a quel tempo non conoscevo ancora quelli a cui potevano piacere le mie doti. Allora provai per un po’ a fare la madre di fatica (sai cos’è, dare alla luce i bambini per le signore ricche che non hanno voglia di portarseli per nove mesi), ma sapevo che non c’era futuro in quella professione. Tempo dieci anni e mi sarei ritrovata a frugare nei bidoni dei robot spazzini, cercando di far durare un mese un vestito di carta gettato via. Allora mi ricordai che al mio paese ero capace di stendere nove ragazzi su dieci e mi iscrissi a delle gare per dilettanti. Dopo un po’ presi ad addestrarmi per diventare una professionista. — Scosse tristemente la testa. — Avresti dovuto vedermi allora; ero veramente bella prima che fossi costretta a fare la cura di ormoni. — Si guardò con un certo schifo le mani, ancora coperte dai guanti bianchi, macchiati di sugo. — Mi hanno dato anche la pituitrina, quei bastardi. — Sospirò e scosse le spalle. Ormai le erano rimaste solo le ossa nel piatto e stava scolando il secondo whisky. — Ecco com’è andata, Phil. Naturalmente dovevo finire per innamorarmi di un lottatore e sposarlo, quel piccolo farabutto. La maggior parte delle ragazze nel nostro mestiere fa questo errore. Ma almeno posso permettermi di mangiare coniglio, e anche carne, e ci sono un sacco di imbecilli che mi rispettano.

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