Carr sentì il fil di ferro che cingeva il minuscolo pezzo di terra quasi del tutto privo d’erba premergli contro il polpaccio e si rese conto di aver fatto un passo indietro. Ricordò di aver ascoltato Jane che suonava il terzo movimento. Non poteva sapere se Jane avrebbe suonato il primo movimento proprio in quel modo.
Tornò nel vestibolo e premette di nuovo il pulsante.
Non vi fu nessuna esitazione nelle note del pianoforte. Sgorgavano gelide, remote, inumane, come se qualche gigantesco insetto stesse camminando con cortese precisione e infallibilità su e giù per la tastiera.
Carr sbirciò di nuovo attraverso la porta interna. Un po’ di luce filtrava da uno dei pianerottoli in alto. Provò a spingere la porta: lo scatto di chiusura doveva essersi bloccato perché si aprì immediatamente.
Avanzò rapidamente nella fitta penombra. Cinque gradini, una curva, altri cinque gradini. Poi, proprio mentre stava per arrivare al primo pianerottolo, anch’esso in ombra, sentì qualcosa di piccolo e silenzioso arrivargli da dietro sfregandosi contro le sue caviglie.
Carr si appiattì con la schiena e le mani contro la parete intonacata. Poi si rilassò, esalando un silenzioso sospiro. Era soltanto un gatto. Un gatto nero con la gola e il petto bianchi come un abito da sera.
Ed era anche un gatto molto tranquillo. S’incamminò soavemente verso la porta dell’appartamento dei Gregg.
Ma, giunto a mezzo metro di distanza, si fermò. Rimase là, immobile, per parecchi secondi, la testa alta come una statua, salvo per il suo pelo che parve infoltirsi un po’. Poi, molto lentamente, si guardò intorno.
Fissò Carr.
Al di là della porta, il pianoforte attaccò con vivacità il secondo movimento.
Carr protese esitando la mano. Si sentiva la gola secca e come paralizzata. — Micio — gracidò.
Il gatto inarcò la schiena, soffiò minacciosamente poi, torcendo il corpo, fece un balzo che lo portò a metà strada sulla successiva rampa di scale. Si rannicchiò sul gradino più alto, i verdi occhi sporgenti che lo scrutavano attraverso le sbarre della ringhiera.
Risuonò un rumore di passi. Istintivamente Carr si tirò indietro. La porta si spalancò all’improvviso, la musica esplose sul pianerottolo e una signora dai capelli grigi con un vestito stampato d’azzurro e bianco guardò fuori e chiamò: — Gigolò! Vieni qui! Gigolò!
Dietro veli di pinguedine, aveva il mento piccolo e il naso dritto di Jane. Non la statura di Jane tuttavia. Era piuttosto bassa oltre che grassa. Il suo viso aveva un’espressione sciocca.
E doveva anche essere miope poiché, malgrado stesse guardando nella direzione della scala, non vide il gatto, né si accorse della presenza di Carr. Provando il vivo disagio dell’intruso, Carr stava per farsi avanti quando si rese conto di essere così vicino che le avrebbe fatto prendere uno spavento.
— Gigolò! — chiamò di nuovo la donna. Poi parlando tra sé: — Quel gatto! — Un’occhiata alla lampadina guasta sul soffitto e infine, scuotendo distrattamente la testa: — Gigolò!
Tornò dentro. — Lascio la porte aperta, Gigolò — gridò. — Entra quando vuoi.
Carr uscì finalmente dal buio con un rauco: — Mi scusi. — Ma le veloci note iniziali del terzo movimento, suonate troppo forte, soffocarono la sua voce.
Raggiunse la porta. Gli occhi verdi in cima alla rampa lo seguirono. Carr alzò la mano per bussare, ma allo stesso tempo guardò attraverso la porta semiaperta lungo una minuscola anticamera fin dentro al soggiorno.
Era una stanza piuttosto piccola, con troppi mobili massicci in aggiunta al falso caminetto e ai troppi centrini merlettati sui tavolinetti e ai coprischienali sui poggiatesta e i braccioli delle poltrone. Poté vedere l’altra estremità del canapé rosso e i piedi infilati nelle pantofole dell’uomo anziano che c’era seduto. La donna si era ritirata su una sedia dallo schienale dritto sull’altro lato della stanza e se ne stava seduta con le mani incrociate, le labbra increspate in segno di preoccupazione.
Fra loro due c’era, un pianoforte verticale. Sopra il pianoforte una fotografia incorniciata in argento di Jane.
Ma non c’era nessuno seduto al pianoforte.
A Carr, il resto della stanza parve oscurarsi e cagliarsi, quando fissò la distesa dei tasti che s’increspava al ritmo della musica…
Poi esalò il respiro che aveva trattenuto. Naturale, doveva essere una specie di strumento elettrico.
La donna si mosse a disagio sulla seggiola. Le sue labbra continuarono ansiosamente a contrarsi e a distendersi come quelle d’un pesce dietro al cristallo di un acquario.
Alla fine la donna disse: — Non ti stai stancando troppo, cara? È tutto il giorno che lo stai facendo, sai?
Carr guardò in direzione dell’uomo, ma riuscì a vedere soltanto i piedi infilati nelle pantofole. Non vi fu risposta.
Il pianoforte smise di suonare. Carr fece un passo avanti. Ma proprio allora la donna si alzò e si avvicinò al pianoforte. Carr si aspettò che facesse qualcosa con il meccanismo, ma invece cominciò ad accarezzare l’aria ad una settantina di centimetri sopra il seggiolino del pianoforte con un movimento affettuoso verso il basso. Carr si sentì rabbrividire.
— Su, su cara — disse la donna. Il suo viso aveva quell’espressione sciocca e vacua che lui aveva già osservato sulla porta. — È stato molto bello, lo so, ma passi troppo tempo con la musica. Alla tua età una ragazza dovrebbe divertirsi, incontrare altri giovani. Ma tu rimani sempre chiusa in casa. — Si sporse in avanti, chinò la testa come se stesse guardando da dietro le spalle di qualcuno seduto al pianoforte, agitò il dito e disse con finta allegria: — Guarda che cerchi hai sotto gli occhi!
I piedi infilati nelle pantofole che sporgevano dal canapé rosso si girarono. Una voce stanca disse: — Su non preoccuparti per Jane, mamma.
La donna si raddrizzò. — Esercitarsi troppo fa male a chiunque. Mina la sua salute… e non m’importa quanto lei sia ambiziosa, o quanto tu lo sia per lei.
I piedi infilati nelle pantofole furono tirati indietro. Il canapé cigolò. L’uomo comparve infine alla vista: non era così vecchio come Carr aveva pensato, ma aveva un’aria stanca. La sua camicia, aperta sul collo, era del tipo col colletto staccabile.
Per Carr il tempo si fermò, come se l’orologio dell’universo esitasse prima del “tic” successivo. In quella pausa congelata, soltanto i suoi pensieri si mossero. Era vero allora. L’uomo basso e grasso… l’impiegato alla ricezione… Marcia nella sua camera da letto… Ieri notte con Jane: il bar, il negozio di musica, il cinematografo, i giocatori di scacchi… E adesso quella donna anziana.
Tutti, tutti automi. Macchine!
O altrimenti (il tempo riprese a scorrere) quella donna era pazza.
Sì, ecco, pazza, demente. Comportandosi nella sua demenza, come se la figlia assente si trovasse invece là davanti a lei. Credendoci fermamente.
Carr si aggrappò a questo pensiero.
— Suvvia cara — stava dicendo ancora con voce insulsa la donna — devi semplicemente riposarti.
— Mamma, non eccitarti — insisté ancora l’uomo anziano, per calmarla. — Va tutto bene.
Anche il padre è pazzo, pensò Carr. No, sta soltanto assecondandola. Finge di credere alle sue allucinazioni. Dev’essere così.
— Non va affatto bene — lo contraddisse la donna in lacrime. — Non voglio che Jane si eserciti tanto e faccia quelle lunghe passeggiate sconsiderate sempre da sola. Jane non devi… Improvvisamente, un’espressione di vivo allarme le si disegnò sul viso. — Oh Jane, non andar tene. Per favore, non andartene, Jane. — Tese la mano in direzione dell’anticamera come per trattenere qualcuno. Carr si tirò indietro. Provò un émpito di nausea. Era orribile che quella vecchia pazza assomigliasse tanto a Jane.
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