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Robert Bloch: Diretto per l’inferno

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Anche pubblicato come “Quel treno per l’inferno” ed “Il treno del diavolo”.

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Robert Bloch

Diretto per l’inferno

Martin era un bambino, quando suo padre lavorava alle ferrovie. Non guidò mai le locomotive: faceva lo scambista per la CB&Q ed era orgoglioso del suo mestiere. E ogni sera, quando si ubriacava, cantava la vecchia canzone del Diretto per l’Inferno.

Martin non si ricordava le parole, ma non poteva dimenticare il modo in cui suo padre la cantava e quando il vecchio fece lo sbaglio di sbronzarsi di pomeriggio e finì strizzato tra un carro cisterna della Pennsy e un merci dell’ AT&SF , Martin in un certo senso si meravigliò che i suoi compagni di lavoro non cantassero quella canzone al funerale.

Dopo, le cose non filarono tanto lisce per Martin, ma per una ragione o per l’altra gli tornava sempre in mente la canzone. Quando sua madre se ne andò via con un commesso viaggiatore di Keokuk (e suo padre si dovette rivoltare nella tomba, a sapere che aveva fatto una cosa del genere; e poi con un passeggero! ), Martin canticchiava tra sé il motivo ogni notte, all’orfanotrofio. E dopo che se ne scappò via, continuò a fischiettare piano la canzone negli accampamenti dei vagabondi, quando gli altri balordi dormivano.

Per quattro, cinque anni, Martin se ne andò in giro, e poi si accorse che non stava andando da nessuna parte. Quindi cercò di darsi da fare con un mucchio di cose: raccoglier frutta nell’Oregon, lavare i piatti in una trattoria del Montana, rubare coprimozzi d’auto a Denver e copertoni a Oklahoma City: ma durante i sei mesi che passò ai lavori forzati nell’Alabama si accorse che se andava avanti così non aveva scampo. Allora cercò di entrare nelle ferrovie, come aveva fatto suo padre, ma gli dissero che erano tempi duri.

Martin, però, non riuscì a star lontano dalla ferrovia; dovunque andasse, seguiva le rotaie. Avrebbe preferito saltare su un merci diretto a nord con un freddo cane, piuttosto che alzare la mano per scroccare un passaggio a una Cadillac diretta in Florida. E ogni volta che riusciva a procurarsi una lattina di Sterno , andava a sistemarsi in un caldo e simpatico sottopassaggio, ripensava ai bei giorni andati e più spesso che mai mugolava la canzone del Diretto per l’Inferno. Era il treno degli ubriaconi e dei peccatori, dei giocatori e degli imbroglioni, dei perditempo, dei puttanieri e tutta l’allegra brigata. Sarebbe stato bello farsi un viaggetto in quella compagnia, però Martin non aveva tanta voglia di pensare a cosa accadesse quando il treno alla fine arrivava in Rimessa. Non riusciva a vedersi a caricar di carbone le caldaie dell’Inferno, senza nemmeno un sindacato a proteggerlo. Però sarebbe stato un bel viaggetto, se fosse veramente esistito un Diretto per l’Inferno: ma, ovviamente, non esisteva.

Cioè, Martin credeva che non esistesse: poi, una sera, si ritrovò a camminare lungo i binari diretto a sud, appena fuori di Appleton Junction. La notte era fredda e scura, come lo sono le notti di novembre nella valle del Fox River, e lui sapeva che prima dell’inverno doveva riuscire ad arrivare a New Orleans, magari addirittura nel Texas. Non aveva tanta voglia di andarci, sebbene avesse sentito che un mucchio di automobili nel Texas hanno i coprimozzi d’oro zecchino.

Nossignore, lui non era tagliato per rubacchiare a quel modo. È peggio di un delitto: non rende. Fare il mestiere del Diavolo, va bene, ma non per una paga così miserabile. Forse era meglio lasciarsi convertire dall’Esercito della Salvezza.

Martin continuò a camminare canticchiando la canzone di suo padre, aspettando un convoglio che lo portasse lontano da Junction. Doveva prenderlo, non poteva fare altro. Ma il primo treno che arrivò, arrivò dall’altra direzione, ruggendo lungo il binario.

Martin guardò avanti stringendo gli occhi, ma non riusciva a distinguere nient’altro che il rumore ed era il rumore di un treno; poteva anche sentire le rotaie vibrare e cantare sotto i suoi piedi.

Ma come era possibile? La prossima stazione era Neenah-Menasha, e di là non sarebbe dovuto arrivare niente prima di diverse ore.

Spesse erano le nubi nel cielo, e la bruma vagava sui campi gelida e opaca nella mezzanotte di novembre. Anche così, tuttavia, Martin sarebbe dovuto riuscire a scorgere i fari del treno che avanzava, mentre c’era soltanto il fischio che erompeva dalla nera gola della notte. Martin era in grado di riconoscere le caratteristiche di quasi tutti i treni, ma non aveva mai sentito un fischio come quello: non era un avvertimento, era come l’urlo di un’anima dannata.

Balzò via di lato perché ormai il treno stava arrivando. Ed eccolo, improvvisamente apparire gigantesco tra uno stridore di freni. Non avrebbe mai creduto che potesse bloccarsi in così breve spazio. Le ruote non dovevano essere oliate, perché urlavano anche loro, urlavano disperate.

Ma il treno si fermò e gli stridii si spensero in un gemito sommesso e Martin, guardando in su, vide che era un treno passeggeri, grande e nero, senza una sola luce nella cabina di guida o lungo l’interminabile coda di vagoni. Non riuscì a leggere nessuna scritta lungo le fiancate, ma era certo che quel treno non era di servizio sulla Northwestern Road.

Ne fu anche più sicuro quando vide un uomo discendere dalla carrozza di testa: c’era qualcosa di strano nel modo in cui camminava, come strascicando un piede; e poi la lanterna che egli portava era spenta e lo sconosciuto la levò davanti alla faccia e ci soffiò sopra e subito la lanterna si accese rosseggiando. Non c’è bisogno di far parte delle ferrovie per capire che quello è un modo molto curioso di accendere le lanterne.

Mentre la figura si avvicinava, Martin riconobbe il berretto da macchinista e questo lo tranquillizzò per un momento: ma poi si accorse che era un po’ troppo sulla fronte, come se qualcosa lo tenesse sollevato.

Tuttavia Martin sapeva essere educato, e quando l’altro gli sorrise, disse: — Buona sera, signor macchinista.

— Buona sera, Martin.

— Come fa a sapere il mio nome?

L’altro si strinse nelle spalle. — Come facevi tu a sapere che io ero il Macchinista?

— Ma lei è il Macchinista, no?

— Per te, certo. Altra gente, in altre strade della vita, mi riconosce anche sotto differenti aspetti. Per esempio, dovresti vedere per chi mi prendono quelli di Hollywood. — Sogghignò. — Io faccio un mucchio di viaggi — spiegò.

— E adesso, cosa fa da queste parti? — domandò Martin.

— Be’, la risposta dovresti saperla. Sono capitato qui perché tu avevi bisogno di me. Stanotte mi sono accorto di colpo che stavi cascando male, pensavi addirittura di metterti con l’Esercito della Salvezza. No?

— Be’…

— Non ti vergognare. Errare è umano, come ha detto qualcuno… Forse Selezione ? Be’, non fa niente. Quello che conta è che avevi bisogno di me. Così sono partito e ti sono venuto incontro.

— Perché?

— Naturalmente per darti un passaggio. È meglio viaggiare comodi in treno che trascinarsi per le strade gelate dietro la banda dell’Esercito della Salvezza, non ti pare? È dura per i piedi, mi hanno detto, ma è ancora peggio per i timpani.

— Non so se voglio veramente salire sul suo treno, signor Macchinista — disse Martin. — Sto pensando a dove andrò a finire.

— Ah, sì, certo, la solita vecchia storia. — Il Macchinista sospirò. — Forse preferisci fare un patto, eh?

— Ecco, sì — rispose Martin.

— Be’, penso di piantarla con questo genere di cose; non c’è più pericolo di un calo della clientela, adesso: perché dovrei offrirti delle condizioni speciali?

— Lei mi vuole, vero? Altrimenti non si sarebbe dato la briga di venire a cercarmi fin qui.

Il Macchinista sospirò di nuovo. — Sì, hai ragione. Ammetto che l’orgoglio è sempre stato il mio punto debole, e poi mi spiacerebbe perderti, dopo aver pensato a te per tutti questi anni. — Esitò. — D’accordo. Se insisti, sono pronto a trattare con te sulla base di quello che vuoi tu.

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