Walter Miller Jr. - Il mattatore

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Il dito si tese sul grilletto. La pistola si mosse verso il bersaglio stabilito, mentre lui continuava a spostarsi. Era rischioso, doveva calcolare esattamente i tempi. Era come ballare con un cobra. Avrebbe voluto volar via.

Hai manomesso il nastro, hai rovinato lo spettacolo, ti sei adeguato mediocremente a un sistema che odiavi , ricordò a se stesso. E hai persino caricato la pistola. Ora se non sai rischiare…

Digrignò i denti, continuò a oscillare irregolarmente, poi…

— Ti prego, Marka… no, no, nooooo!

Un pugno rovente lo colpì da qualche parte vicino alla cintura, lo fece roteare, cadere a terra; l’aspro tossire della pistola era soltanto una parte dello scoppio. Poi si ritrovò afflosciato sul fianco nella zona priva di strisce, sanguinando e imprecando sommessamente. L’azione continuava. Ebbe l’impulso di gridare ma si sforzò di trattenere il grido; attraverso un velo vedeva gli altri portare a termine il finale, vedeva lo sfocato mare di facce oltre la ribalta. La pallottola gli doleva nel fianco.

Basta contorcersi. Non è credibile un Andreyev morto che si dibatte sul palcoscenico come un pesce trafitto. Un momento… solo un altro momento… tieni duro.

Ma non poteva. Si tastò il fianco cercando la ferita: difficile da individuare fra tutto quell’appiccicaticcio. Avrebbe voluto liberarsi dei vestiti per arrivare alla ferita e fermare il sangue, ma neanche questo andava bene. Avrebbero accettato un manichino che si dibatteva ancora nell’agonia, ma certo non avrebbero accettato un manichino sanguinante. I manichini non sanguinavano. Ma non lo vedevano lo stesso? Dovevano accorgersene. Bel trucco, avrebbero pensato: forse un tubetto di inchiostro rosso. Il realismo è il giusto mezzo di…

Cacciò la mano nella cintura cercando di stringerla quanto più potesse attorno alla vita. Per un attimo il dolore si acuì, ma il flusso del sangue sembrò diminuire. Strinse ancora, serrando i denti e aspettò.

Sapeva dove era stato colpito, ma era difficile dire da che parte fosse uscita la pallottola, e che cosa si fosse portata dietro nella traiettoria. Grazie a Dio per questa perdita di sangue: forse all’interno non era tanto grave.

Cercò di mettere a fuoco il resto della scena. La musica stava aumentando di tono: se n’erano andati via tutti lasciandolo lì? Ma no… dietro il velo vedeva Piotr, che si avvicinava alla sedia dell’ufficio, sedia pesante, ornata, antica. Una volta aveva appartenuto a un nobile dello Zar. Piotr, giovane macchina del tutto fredda, nel suo trionfo… esaminava la sedia.

Da qualche parte dietro le quinte, un grido soffocato. Mila. Non riusciva a tenere chiusa la bocca per mezzo minuto? Forse aveva scorto il sangue. Forse la musica era riuscita a coprire il grido.

Piotr salì sulla pedana e si voltò; sedette cautamente sulla sedia del comando, provandola e sorridendo per la vittoria. Sembrava che trovasse la sedia comoda.

— Devo tenerla, Marka — disse.

Thorny gli indirizzò una sommessa maledizione. L’avrebbe ben conservata, fino a che il tempo avesse fatto un’altra svolta nel lungo e antico fiume. E col favore del popolo… a giudicare dagli applausi scroscianti.

Il sipario calò lentamente, a coprire la finestra sul palcoscenico.

Dietro di lui vi fu un rumore di passi e rantolò Aiuto! un paio di volte ma i passi continuarono ad andare. I manichini marciavano verso le scatole d’imballaggio.

Si rialzò da solo e tutto divenne scuro. Ma quando l’oscurità si dissolse, si ritrovò ancora in piedi, così si diresse barcollando verso l’uscita. Stavano correndo verso di lui… Mila e Rick e un paio di operai. Mani si tesero ad afferrarlo, ma le respinse.

— Adesso cammino da solo — brontolò.

Ma le mani lo afferrarono lo stesso. Vide Giada e il tizio bovino, cercò di trascinarsi verso di loro per spiegare tutto ma lei divenne più pallida e si allontanò. Devo sembrare un bue scannato, pensò.

— Cercavo di abbassarmi. Non volevo.

— Non sprecare il fiato — gli disse Rick. — Ti ho visto. Cerca solo di resistere.

Lo misero dentro una cassa d’imballaggio dei pupazzi e sentì che qualcuno cercava gridando un dottore tra il pubblico che usciva; poi un sacco di mani cominciarono a frugargli il fianco e a strappare.

— Mila…

— Qui, Thorny. Sono qui.

E dopo un po’ lei era ancora lì, ma sul letto batteva il sole e sentì un leggero odore d’ospedale. Batté le palpebre per diversi secondi, guardandola, prima di trovare la voce.

— Lo spettacolo? — chiese con voce roca.

— L’hanno stroncato — disse con voce dolce.

Richiuse gli occhi, lamentandosi.

— Ma farà un mucchio di soldi.

La fissò stupito, battendo le palpebre.

— Pubblicità. Fenomenale. Devo leggerti le recensioni?

Annuì e lei prese i giornali: parlavano tutti del pazzo che sanguinava sul palcoscenico. La fermò a metà del primo articolo, era sufficiente. Il pubblico aveva cominciato a sospettare qualcosa durante le ultime battute dello spettacolo e la ricerca di un dottore aveva confermato i sospetti.

— Hai perso il pandemonio tra le quinte — gli disse. — È stato veramente un caos.

— Ma lo spettacolo non chiude?

— E come potrebbe, con tutta questa morbosità come forza d’attrazione? Se chiude, sarà a causa dell’interpretazione di Peltier.

— E Giada…?

— Offesa. Molto offesa: puoi biasimarla?

Scosse la testa. — Non volevo far del male a nessuno. Mi spiace.

Lo guardò in silenzio per un momento poi: — Non puoi continuare ad agitarti come stai facendo, Thorny, senza ferire qualcuno, senza che qualcuno cominci a odiare il tuo coraggio, perché è stato calpestato. Proprio non puoi.

Era vero. Quando ti attacchi a un pezzo del passato e lo fai quietamente, fai male solo a te stesso. Ma quando incominci a dar colpi all’impazzata per fargli posto nel presente, cominci anche a colpire gli astanti.

— Il teatro è morto, Thorny. Ci credi adesso?

Ci pensò su un po’ e scosse la testa. Non era morto. Soltanto la forma era cambiata e forse neppure in modo permanente. Ci aveva pensato la prima volta la sera prima, davanti all’icona. C’erano cose che appartenevano al tempo loro e poche altre che erano senza tempo. Il tempo era il risultato di un certo genere di cultura umana; le cose senza tempo erano il risultato di ogni cultura umana: e l’Uomo di Cultura era un Teatrante. Creava delle locandine di cultura per un pubblico di uomini, esponendovi le sue aspirazioni, ideali e mete, e queste esposizioni erano necessarie per la continuità della cultura, per il deliberato orientamento della specie.

Al di là di una siffatta locandina, l’Uomo di Cultura erigeva un altare e ci metteva davanti un prete che cantasse la descrizione liturgica delle ragioni emotive dei suoi tempi. E al di là di un’altra locandina costruiva un palcoscenico e vi sistemava sopra i propri manichini parianti per vivere una sequenza drammatica dei desideri e dei dolori del suo tempo.

È vero, i preti sarebbero cambiati, e la liturgia sarebbe cambiata, e i manichini, e i drammi, e i contenuti… ma le locandine non sarebbero cambiate, no mai… non sarebbero mai state tolte fin tanto che l’Uomo fosse sopravvissuto, perché solo attraverso queste locandine gli uomini transitori avrebbero potuto vedere se stessi contro l’orizzonte di una curva più ampia, vedere l’uomo circondato dall’Uomo. Nessuna prospettiva sarebbe stata possibile senza una locandina.

Il Dramma: antico come l’Uomo civile. Forme, tecniche e applicazioni sopravvissute. Sopravviveva anche all’attuale culto popolare del Grande Dio Meccanismo che era stato temporaneamente custodito mentre era ancora incompreso dal popolo. Come il Grande Dio Commercio di un secolo precedente e il Dio Agricoltura prima di lui.

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