Walter Miller Jr. - Il mattatore

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La presentazione di Mila era stata scritta per convincere il pubblico che era una bella fortuna poter avere Thornier invece di Peltier, ma non c’era nulla che chiarisse trattarsi d’un attore in carne e ossa: non erano state usate le parole “pupazzo” o “manichino”, per lasciare al pubblico la sua convinzione senza avvalorarla. Era anche breve: dopo qualche aneddoto sulla prima presentazione dello spettacolo, più d’una generazione indietro, fu terminata.

— E ora, senza ulteriori indugi, amici cari, eccovi… L’anarchico di Procjev.

Fece un elaborato inchino e sparì dietro il sipario, piangente, mentre un’esplosione di musica maestosa annunciava l’inizio. Non ancora fuori del palcoscenico, si fermò vedendo Thornier. Il sipario cominciò ad alzarsi. Fece per gettarsi contro di lui, esitò, si fermò a guardarlo timorosa mordendosi le labbra, gli occhi pieni di lacrime.

In scena un telefono squillò sul tavolo del commissario Andreyev. La sua prima entrata sarebbe avvenuta tre minuti dopo: un tenente entrò per rispondere al telefono.

— È andata bene, Mila — sussurrò Thorny, con un sorriso agro.

Non lo sentì. Gli occhi le corsero al costume, molto simile all’uniforme che lui aveva indossato per una prova di abiti dieci anni prima. Si portò la mano alla gola; desiderava fuggire lontana da lui, ma dopo un momento riprese il controllo di se stessa. Dette un’occhiata al suo manichino, in attesa fuori scena, poi tornò a Thornier.

— Non vuoi dire qualcosa di adeguato alla circostanza? — sibilò.

— Io… — Il suo gelido sorriso svanì lentamente. Era il suo primo piccolo trionfo… trionfo su Mila, una Mila nauseata e tormentata dai rimorsi che aveva acquistato la sicurezza a spese dell’integrità e stava ancora pagando a piccole rate come questa, la Mila che un tempo aveva amato. Il primo piccolo “trionfo” divenne un doloroso nodo in gola.

Fece per andarsene, ma le afferrò un braccio.

— Mi spiace, Mila — mormorò con voce rauca. — Mi spiace davvero.

— Non è colpa tua.

Ma lo era. Naturalmente lei non sapeva quello che aveva fatto; non sapeva che aveva manomesso i nastri e fatto in modo di essere scelto per sostituire il manichino di Peltier, in modo che lei lo vedesse dar la replica all’immagine meccanica di una Mila che aveva smesso di esistere dieci anni prima, lo vedesse dar nuova vita alla parodia di qualcosa.

— Mi spiace — sussurrò ancora.

Scosse la testa, liberò il suo braccio e fuggì via. La guardò allontanarsi e sentì che qualcosa gli faceva male, dentro. Il loro gelido incontro poche ore prima era stato il momento decisivo, quando in un rigurgito d’amarezza aveva deciso di portare a fondo il suo progetto e persino di scusare se stesso per farlo. Forse l’amarezza gli aveva fatto velo, pensò. La sua reazione nel trovarselo di colpo davanti non era stato snobismo, ma orrore. Un vecchio fantasma ridotto a fare il buffone vestito di una tuta lurida, la cui faccia aveva probabilmente tentato di dimenticare, era balzato fuori per affrontarla in un luogo che era già fin troppo pieno di ricordi. Nessuna meraviglia che fosse apparsa fredda; probabilmente lui era il simbolo di qualcuna delle sue autoaccuse, come sapeva che era stato per altri. Quelli che avevano avuto successo, quelli che avevano tratto profitto dall’autodramma, lo avevano visto spesso con secchio e strofinaccio: e se per caso si ricordavano di Ryan Thornier, si voltavano con troppa fretta. E ogni volta aveva sentito una tiepida soddisfazione immaginando il loro pensiero: Thornier non avrebbe voluto compromessi… e il loro odio, perché avevano accettato il compromesso e così avevano perduto qualcosa. Ma essere odiato da Mila… era comunque diverso. Non voleva che fosse così. Qualcuno gli dette una gomitata nelle costole. — Il tuo attacco, Thorny! — sibilò una voce tesa. — Sei di scena!

Si riscosse brontolando. Feria lo stava spingendo di furia verso la sua entrata. Tentò di recuperare in fretta la propria presenza di spirito, di immergersi nel personaggio e corse fuori.

Sbagliò malamente la scena. Seppe di averla sbagliata ancor prima di rientrare e vedere le loro facce. Aveva perso due attacchi e, aveva avuto bisogno più volte dei suggerimenti di Rick dalla cabina. Aveva recitato in modo legnoso, lo sentiva.

— Vai molto bene, Thorny, molto bene! — gli disse Giada: non osava dirgli niente altro durante una recita. Scuoti l’orgoglio di un attore durante una prova e avrà modo di riprendersi; scuotilo durante uno spettacolo e riuscirai solo a irritarlo. — Ma senza che gli venisse detto sapeva quanta preoccupazione fosse celata dietro quel piccolo sorriso meccanico. — Cerca solo di calmarti un po’, eh? — lo avvertì. — Sta andando bene.

Lo lasciò a fremere in solitudine. Si appoggiò al muro, guardando torvo in basso e flagellandosi mentalmente. Un fallito, sei, una miserabile briciola, custode del cavolo, fantesca filodrammatica…

Doveva riprendersi; se avesse sciupato questa, non ci sarebbe più stata per lui un’altra possibilità. Ma continuava a pensare a Mila, a come aveva desiderato ferirla, a come adesso che l’aveva ferita desiderasse fermarsi. — Il tuo attacco, Thorny… sveglia!

E fu di nuovo in scena, inciampando sulle battute, terrorizzato dal mare di facce confuse che erano dove avrebbe dovuto trovarsi la quarta parete.

Lo stava aspettando quando rientrò per la seconda volta. Uscì di scena pallido e tremante, col colletto umido di sudore; si appoggiò all’indietro, accese una sigaretta e la guardò con aria abbattuta. Lei non riusciva a parlare. Gli prese un braccio tra le mani e lo strinse convulsamente mentre appoggiava la fronte contro la spalla. Abbassò su di lei uno sguardo costernato. Lei non si sentiva più ferita, non poteva sentirsi ferita vedendolo fare là fuori una figura da sciocco. Avrebbe potuto soddisfare deliziosamente il suo spirito di vendetta e quasi desiderò che così fosse. Invece, aveva compassione di lui. Si sentiva intorpidito e dolorante fino al midollo. Non ce l’avrebbe fatta.

— Mila, è meglio che te lo dica; non posso dire a Giada che cosa…

— Non parlare, Thorny. Fa’ del tuo meglio. — Alzò lo sguardo su di lui.

— Ti prego, fa’ del tuo meglio!

Ne fu meravigliato. Perché lei doveva comportarsi in quel modo?

— Non vorresti piuttosto vedermi fallire? — le chiese.

Scosse rapida la testa, poi si fermò e annuì. — Una parte di me lo vorrebbe, Thorny. La parte vendicativa. Devo credere nel teatro meccanico, io… io ci credo. Ma non voglio che tu fallisca, davvero. — Si coprì un momento gli occhi con le mani. — Non sai che cos’è vederti là fuori… in mezzo a tutto quel… quel… — Si scosse lievemente. — È una buffonata, Thorny, tu non c’entri niente con quella roba, ma… finché ci stai, non rovinare tutto. Fa’ del tuo meglio!

— Sì, certo.

— È qualcosa di molto precario: l’effetto, voglio dire. Se il pubblico comincia a rendersi conto che tu non sei un pupazzo… — Scosse lentamente la testa.

— E se succede?

— Riderebbero. Ti riderebbero in faccia.

Era pronto a tutto ma non a questo. Questo confermava quel tormentoso presentimento che aveva avuto durante la prova.

— Thorny, questo è quello che mi preme veramente. Non m’interessa se tu reciti bene o da cane, finché non scoprono che cosa sei. Non voglio che ti ridano dietro; hai già sofferto abbastanza.

— Non riderebbero se io recitassi come si deve.

— Lo farebbero! Non allo stesso modo, ma lo farebbero. Non capisci?

Rimase a bocca aperta; scosse la testa: non era vero. — Attori umani lo hanno già fatto — protestò. — In provincia, in piccoli teatri, con un Maestro ridotto.

— Hai mai visto roba del genere?

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