Philip Farmer - I cavalieri del salario viola ovvero La grande abbuffata
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- Название:I cavalieri del salario viola ovvero La grande abbuffata
- Автор:
- Издательство:Mondadori
- Жанр:
- Год:1991
- Город:Milano
- ISBN:88-04-35083-0
- Рейтинг книги:4 / 5. Голосов: 1
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O’Hara sbircia oltre la porta, vede due corpi sul pavimento, vede che qualcuno si massaggia la testa o i fianchi o si asciuga il sangue, e vede Accipiter, seduto come un avvoltoio che sogna una prateria piena di carogne. Uno dei corpi si solleva a quattro zampe ed esce strisciando sulla strada, passando tra le gambe di Gambrinus.
— Sergente, arresti quest’uomo! — dice Gambrinus. — Ha un fideo illegale. Lo accuso di violazione di domicilio!
O’Hara s’illumina in volto. Almeno potrà segnare al suo attivo un arresto. Legrand viene caricato sul cellulare, che arriva subito dopo l’ambulanza. Falco Rosso viene portato sulla soglia dai suoi amici.
Riapre gli occhi mentre con la barella lo caricano sull’ambulanza, e mormora qualcosa.
O’Hara si piega su di lui. — Cosa?
— Una volta ho lottato contro un orso, e avevo solo il coltello, ma ne sono uscito meglio che contro quelle fighe marce. Le accuso di aggressione e percosse, omicidio e lesioni.
O’Hara cerca di far firmare la denuncia a Falco Rosso, ma non ci riesce, perché il giovane nel frattempo è svenuto. Il sergente bestemmia. Quando Falco Rosso starà meglio, si rifiuterà di firmare la denuncia. Non vorrà che le ragazze e i loro amichetti lo sistemino: non la firmerà, se ha un filo di buon senso.
Dal finestrino del cellulare, affacciato tra le sbarre, Legrand urla: — Sono un agente governativo! Non potete arrestarmi!
I poliziotti ricevono una chiamata d’urgenza: debbono accorrere davanti al Centro delle Arti, dove una rissa tra i giovani del luogo e gli invasori arrivati da Westwood minaccia di trasformarsi in un tumulto. Benedectine esce dalla taverna. Nonostante parecchi colpi alle spalle e allo stomaco, un calcio nelle natiche e una botta in testa, non ha affatto l’aria di chi sta per perdere il feto.
Chib, un po’ triste, un po’ allegro, la segue con lo sguardo. Prova una sorda angoscia, al pensiero che al bambino venga negato di vivere. Ormai si rende conto che, in parte, la sua opposizione è dovuta a un’identificazione con il feto: lo sa, anche se il Nonno crede che lui lo ignori. Si rende conto che la sua nascita è stata un incidente… fortunato o sfortunato, è ancora da vedere. Se le cose fossero andate diversamente, non sarebbe nato. Il pensiero della propria inesistenza… niente pittura, niente amici, niente risate, niente speranza, niente amore… lo inorridisce. Sua madre, sempre un po’ ubriaca, negligente nell’uso dei contraccettivi, ha fatto un mucchio di aborti, e uno poteva essere lui.
Mentre guarda Benedectine che si allontana ancheggiando (nonostante le vesti strappate) si domanda che cosa poteva aver visto in lei. La vita insieme a quella ragazza, anche con un bambino, sarebbe stata insopportabile.
Nel nido della bocca imbottito di speranza
Torna di nuovo Amore. Si posa,
Tuba, mostra la gloria del suo piumaggio, ti abbaglia,
E poi vola via, mollando uno schizzo di merda,
Come
fanno gli
uccelli,
Per alleggerirsi al decollo.
Chib torna a casa, ma non riesce neppure stavolta a entrare in camera sua. Va nel ripostiglio. C’è laggiù un quadro dipinto per sette ottavi, ma che non è stato completato perché lui non ne era soddisfatto. Ora lo porta fuori, lo trascina nella casa di Runic, che si trova nel suo stesso gruppo abitativo. Runic è al Centro, ma quando è fuori lascia sempre la porta aperta. Ha però l’attrezzatura per dipingere, e Chib la usa per finire il quadro, lavorando con la sicurezza e l’attenzione che gli erano mancate la prima volta che l’ha creato. Poi lascia la casa di Runic, e tiene alta sopra la testa l’enorme tela ovale. Lascia i piedistalli, passa sotto i loro rami curvi che reggono gli ovoidi. Aggira numerosi giardinetti erbosi ricchi d’alberi, passa sotto altre case, e in dieci minuti arriva al cuore di Beverly Hills. Qui, il mercureo Chib vede
NEL POMERIGGIO DORATO TRE DAME DI PIOMBO
che si abbandonano con negligenza al gioco delle correnti, in una canoa sul Lago Issus. Maryam bint Yusuf, sua madre e sua zia, impugnano apaticamente canne da pesca e guardano in direzione dei colori gai, della musica, della folla ciarliera raccolta davanti al Centro Popolare. Ormai i poliziotti hanno sedato la rissa tra i giovani, e adesso restano lì per assicurarsi che nessun altro combini guai.
Le tre donne vestono gli abiti scuri, che nascondono completamente la figura, tipici della setta fondamentalista dei wahhabi maomettani. Non portano veli: ormai, neppure i wahhabi li pretendono più. I loro confratelli egiziani rimasti a riva indossano abiti moderni, vergognosi e peccaminosi. Nonostante questo, le tre signore li guardano bene.
I loro uomini sono ai margini della folla. Barbuti e vestiti come sceicchi di un fideodramma sulla Legione Straniera, borbottano imprecazioni gorgoglianti e soffiano nel vedere tanta iniqua esposizione di carni femminili. Ma le guardano bene.
Costoro sono arrivati dalle riserve zoologiche dell’Abissinia, dove sono stati sorpresi a cacciare di frodo. Il governo ha offerto loro di scegliere fra tre possibilità. Detenzione in un centro di riabilitazione, dove sarebbero stati curati fino a quando non fossero diventati onesti cittadini, a costo di impiegarci tutta la vita. Emigrazione nella megalopoli di Haifa, in Israele. Oppure emigrazione a Beverly Hills, Los Angeles.
Cosa? Andare ad abitare tra i maledetti ebrei d’Israele? Avevano sputato in terra, e avevano scelto Beverly Hills. Ahimè, Allah si era beffato di loro! Adesso erano circondati da Finkelstein, Applebaum, Siegel, Weintraub, e altri appartenenti alla tribù infedele di Isacco. Peggio ancora, Beverly Hills non aveva moschee. O farsi quaranta chilometri tutti i giorni per arrivare al 16° livello, dove c’era una moschea, oppure servirsi di una casa privata.
Chib si avvicina in fretta al margine del lago bordato di plastica, posa il suo quadro e s’inchina profondamente, togliendosi il cappello un po’ gualcito. Maryam gli sorride, ma smette subito quando le due accompagnatrici la rimproverano.
— Ya kelb! Yan ibn kelb! — gridano le due a Chib.
Chib rivolge loro un gran sorriso, agita il cappello e dice: — Incantato, mesdames ! Oh, voi incantevoli signore mi ricordate le Tre Grazie. — Poi grida: — Ti amo, Maryam! Ti amo! Per me tu sei come la Rosa di Sharon! Bellissima, verginale, con occhi di cerbiatta! Una rocca d’innocenza e di forza, traboccante di ardente maternità e di fedeltà assoluta al tuo unico vero amore! Ti amo, tu sei la sola luce in un cielo nero di stelle morte! Io ti lancio il mio grido attraverso il vuoto!
Maryam capisce l’inglese mondiale, ma il vento si porta via le parole di Chib. Fa un sorriso idiota, e Chib prova una repulsione momentanea, un lampo di collera come se, in qualche modo, lei l’avesse tradito. Tuttavia si riprende e grida: — T’invito a venire con me alla mostra! Tu, tua madre e tua zia sarete mie ospiti! Potrai vedere i miei quadri, anima mia, e capirai com’è l’uomo che ti porterà via sul suo Pegaso, mia bianca colomba!
Dice il Nonno: Non c’è nulla di più ridicolo delle farneticazioni verbali di un giovane poeta innamorato. Orribilmente esagerate. Io rido. Ma mi sento anche commosso. Vecchio come sono, ricordo i miei primi amori, il fuoco, i torrenti di parole, inguaiate di lampi, alate di dolore. Care ragazze, adesso molte di voi sono morte; le altre sono avvizzite. Vi mando un bacio.
La madre di Maryam si alza in piedi nella canoa. Per un secondo. Chib la vede di profilo, e ha il preannuncio dell’avvoltoio che Maryam diventerà quando avrà l’età di sua madre. Maryam, ora, ha un dolce volto aquilino: “l’arco della spada dell’amore”, così Chib ha definito quel naso. Ardito ma bellissimo. Tuttavia, sua madre sembra una vecchia aquila spiumata. E la zia… anziché l’aquila, la sua faccia ricorda il muso di un cammello.
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