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Jack Vance: I signori dei draghi

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Jack Vance I signori dei draghi

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Anche pubblicato come “Uomini e draghi”, “I padroni dei draghi”, “Il Signore dei draghi”.

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— Altrimenti cosa? — domandò Carcolo.

— «Altrimenti non vi sarà più la Valle Beata, e non vi sarà più Ervis Carcolo.»

— Bah — fece Carcolo, con voce soffocata. — Quel giovane vanesio abbaia in toni striduli.

— Forse ha voluto darti un avvertimento sincero. Ha detto poi… ma temo di offenderti.

— Continua! Parla!

— Queste sono le sue parole… ma no. Non oso ripeterle. Sostanzialmente, considera ridicoli i tuoi sforzi per creare un esercito. Compara sfavorevolmente la tua intelligenza con la sua. Predice che…

— Basta così! — ruggì Ervis Carcolo, agitando i pugni. — È un avversario sottile, ma perché tu ti presti ai suoi trucchi?

Dae Alvonso scosse la vecchia testa canuta. — Mi limito a ripetere, con riluttanza, ciò che tu esigi di sapere. Ora, poiché mi hai torchiato completamente, consentimi un piccolo guadagno. Vuoi acquistare droghe, elisir, filtri o pozioni? Ho qui un unguento dell’eterna giovinezza che ho rubato dallo scrigno personale del Sacerdote Demie. Nella mia carovana vi sono bambini e bambine, ossequiosi e bellissimi, e a prezzo equo. Posso ascoltare i tuoi affanni, curare la tua balbuzie, assicurarti un’indole placida. O piuttosto vorresti comprare uova di drago?

— Non ho bisogno di tutta questa roba — grugnì Carcolo. — Soprattutto, non mi servono uova di drago da cui nascono lucertole. In quanto ai bambini, la Valle Beata ne brulica. Portami una dozzina di robusti Massacratori, e potrai andartene con cento bambini di tua scelta.

Dae Alvonso scosse tristemente il capo e si allontanò. Carcolo si appoggiò al muretto, fissando i recinti dei draghi.

Il sole era già basso, sulle vette di Monte Disperazione. La sera era ormai vicina.

Era il momento più piacevole della giornata di Aerlith, quando i venti si placavano, lasciando un’immensa quiete vellutata. Il fulgore di Skene si addolciva in un giallo fumoso, con un’aureola di bronzo. Le nubi del temporale serotino si ammassavano, si alzavano, scendevano, mutavano, vorticavano, risplendendo, cangiando in tutti i toni d’oro, bruno-arancio, brunodorato e violetto polveroso.

Skene tramontò; gli ori e gli arancione divennero bruno-quercia e porpora. Il fulmine serpeggiava tra le nubi, e la pioggia cadde come una cortina nera. Nelle caserme gli uomini si muovevano vigili, perché in quei momenti i draghi diventavano imprevedibili, di volta in volta attenti, torpidi, litigiosi. Quando la pioggia passò, la sera divenne notte, e una lieve brezza fresca prese a spirare nelle valli. Il cielo buio cominciò ad ardere e a sfolgorare di tutte le stelle dell’ammasso. Una delle più fulgide ammiccava rossa, verde, bianca, rossa, verde.

Ervis Carcolo studiò pensoso quella stella. Un’idea portò a un’altra, e poi a una linea d’azione che sembrava sciogliere l’intero intrico di incertezze e d’insoddisfazioni che deturpavano la sua vita.

Carcolo storse la bocca in una smorfia acida. Doveva tentare un approccio con quel vanesio di Joaz Banbeck. Se era inevitabile, così fosse!

Perciò la mattina seguente, poco dopo che la menestrella Phade ebbe scoperto il sacerdote nello studio di Joaz, un messaggero giunse nella Valle, invitando Joaz Banbeck all’Orlo dei Banbeck, per incontrarsi con Ervis Carcolo.

IV

Ervis Carcolo attendeva sull’Orlo dei Banbeck in compagnia del Capo dei Signori dei draghi, Bast Givven, e un paio di giovani guide. Dietro, in fila, stavano le loro cavalcature: quattro lucidi Ragni, con le mandibole ripiegate, le gambe aperte ad angoli esattamente identici.

Erano la covata più recente di Carcolo, ed egli ne era immensamente fiero. Gli spuntoni che circondavano i musi cornei erano incastonati di cabochons di cinabro, e uno scudo rotondo, smaltato di nero e munito d’uno sperone centrale, copriva il petto d’ogni animale. Gli uomini indossavano le tradizionali brache di pelle nera, corti mantelletti marrone e caschi di cuoio nero, con lunghe falde che scendevano obliquamente sulle orecchie e ricadevano sul dorso.

I quattro uomini attendevano, pazienti o irrequieti a seconda della loro indole, scrutando la lunga, ben curata Valle dei Banbeck. Verso sud si estendevano i campi di piante alimentari: veccia, bellegarde, pandimuschio, un bosco di loquat. Dalla parte opposta, presso l’imboccatura del Crepaccio di Clybourne, si scorgeva ancora la depressione del cratere creato dall’esplosione della nave dei Basici. A nord c’erano altri campi, poi il complesso riservato ai draghi, con le caserme di mattoni neri, un vivaio per la schiusa, un campo per le esercitazioni. Più oltre c’era il Labirinto dei Banbeck… una zona desolata, dove molto tempo prima era crollato un tratto dello strapiombo, creando un caos di rocce, simile al Labirinto Alto ai piedi del Monte Gethron, ma meno vasto.

Una delle giovani guide, dando prova di scarso tatto, elogiò l’evidente prosperità della Valle dei Banbeck. Ervis Carcolo ascoltò torvo per qualche istante, poi rivolse al colpevole un’occhiata altezzosa.

— Osserva la diga — disse la guida. — Noi sprechiamo metà della nostra acqua a causa della dispersione.

— È vero — disse il suo compagno. — Il rivestimento di roccia è una buona soluzione. Mi domando perché non lo facciamo anche noi.

Carcolo fece per parlare, ma poi cambiò idea. Con un ringhio gutturale si voltò dall’altra parte. Bast Givven fece un segno; le guide ammutolirono.

Qualche istante più tardi, Givven annunciò: — Joaz Banbeck è partito.

Carcolo abbassò gli occhi verso la Via di Kergan. — Dov’è la sua compagnia? Ha deciso di venire solo?

— Così pare.

Qualche minuto dopo Joaz Banbeck apparve sull’Orlo dei Banbeck, cavalcando un Ragno dalla gualdrappa di velluto grigio e rosso. Portava un mantello sciolto di morbida stoffa marrone, sopra la camicia grigia e i calzoni grigi, con un berretto a punta di velluto azzurro. Alzò la mano in un saluto disinvolto.

Bruscamente Ervis Carcolo ricambiò il saluto, e con un cenno scattante del capo indicò a Givven e alle guide di allontanarsi quanto bastava perché non potessero origliare.

Carcolo disse, burbero: — Tu mi hai mandato un messaggio tramite il vecchio Alvonso.

Joaz annuì.

— Mi auguro che abbia riferito con esattezza le mie parole.

Carcolo sogghignò, scoprendo i denti come un lupo. — In certi momenti si è sentito in dovere di ricorrere a parafrasi.

— Il vecchio Dae Alvonso ha molto tatto.

— Mi è stato fatto capire — disse Carcolo — che tu mi consideri imprudente, inefficiente agli interessi della Valle Beata. Alvonso ha ammesso che, parlando di me, tu hai usato la parola “confusionario”.

Joaz sorrise educatamente. — I sentimenti di questo genere vanno comunicati tramite intermediari.

Carcolo ostentò una dignitosa sopportazione. — A quanto pare, sei convinto dell’imminenza di un altro attacco dei Basici.

— Infatti — ammise Joaz. — Se è esatta la mia teoria, che situa la loro patria nei pressi della stella Coralyne. In tal caso, come ho fatto osservare ad Alvonso, la Valle Beata è pericolosamente vulnerabile.

— E perché la Valle dei Banbeck non lo sarebbe? — latrò Carcolo.

Joaz lo fissò stupito. — Non è ovvio? Io ho preso misure precauzionali. La mia gente abita nelle gallerie, anziché nelle capanne. Abbiamo parecchie vie di fuga, se si rendesse necessario, per arrivare al Labirinto Alto e al Labirinto dei Banbeck.

— Molto interessante — Carcolo si sforzò di addolcire la voce. — Se la tua teoria è esatta, e non voglio esprimere un giudizio immediato al riguardo, allora forse sarebbe saggio prendere misure simili. Ma io la penso diversamente. Preferisco l’attacco alla difesa passiva.

— Ammirevole — disse Joaz Banbeck. — Gli uomini come te compiono imprese importanti.

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