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Jack Vance: I signori dei draghi

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Jack Vance I signori dei draghi

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Anche pubblicato come “Uomini e draghi”, “I padroni dei draghi”, “Il Signore dei draghi”.

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Confusi, i Fanti si ritirarono. Kergan Banbeck, con i suoi uomini e i ventitré prigionieri, fuggì nell’oscurità.

Trascorse la lunga notte di Aerlith. Il temporale dell’alba salì da oriente, passò tonando, si dileguò maestosamente a occidente; Skene si levò come un atomo sfolgorante.

Tre uomini uscirono da una nave dei Basici: un Armiere e due Battitori. Si inerpicarono su per gli strapiombi, fino all’Orlo dei Banbeck, mentre sopra di loro volava un piccolo apparecchio dei Basici, niente più d’una piattaforma galleggiante, che si tuffava e virava nell’aria come un aquilone mal bilanciato. I tre uomini avanzarono faticosamente verso sud, in direzione del Labirinto Alto, una regione d’ombre caotiche e di luci, di rocce spezzate e di picchi crollati e di macigni ammassati sui macigni. Era il rifugio tradizionale degli uomini braccati.

Fermandosi davanti al Labirinto, l’Armiere chiamò Kergan Banbeck, proponendogli di parlamentare.

Kergan Banbeck si fece avanti. Si svolse allora il colloquio più strano di tutta la storia di Aerlith. L’Armiere parlava con difficoltà il linguaggio degli uomini; aveva le labbra, la lingua e le corde vocali più adatte alla favella dei Basici.

— Tu tieni prigionieri ventitré dei nostri Riveriti. È necessario che li lasci liberi, con tutta umiltà. — Parlava con calma, e con una sorta di gentile malinconia, senza intimare, comandare o esortare. Come le sue abitudini linguistiche erano state modellate su quelle dei Basici, si erano modificati allo stesso modo i suoi processi mentali.

Kergan Banbeck, un uomo alto e scarno dalle nere sopracciglia laccate, i capelli neri acconciati e laccati in una cresta a cinque alti speroni, scoppiò in una risata priva di gaiezza. — E gli abitanti di Aerlith che sono stati uccisi, e la gente trascinata a bordo della vostra nave?

L’Armiere si protese verso di lui: era un uomo imponente, dalla nobile testa aquilina. Era glabro, aveva solo minuscoli boccoli gialli e lanosi. La sua pelle luceva, come brunita. Le orecchie, la caratteristica che più lo rendeva diverso dagli uomini non adattati di Aerlith, erano falde di pelle, piccole e fragili. Indossava un semplice indumento blu e bianco, e non aveva armi, tranne un semplice eiettore a molti usi. Con assoluta tranquillità e con serena ragionevolezza, rispose alla domanda di Kergan Banbeck: — Gli abitanti di Aerlith che sono stati uccisi sono morti. Coloro che si trovano a bordo della nave si mescoleranno con il substrato, dove l’infusione di sangue nuovo è importante.

Kergan Banbeck scrutò l’Armiere con sprezzante lentezza. Sotto certi aspetti, pensò, quell’uomo modificato e programmato somigliava ai sacerdoti del suo pianeta, soprattutto per la carnagione chiara, i lineamenti modellati fortemente, le braccia e le gambe lunghe.

Forse era in opera la telepatia, o forse una traccia del caratteristico odore dolce-acidulo era arrivata fino a lui; girando la testa scorse un sacerdote ritto tra le rocce, a meno di cinquanta passi… tutto nudo, a eccezione del monile d’oro e dei lunghi capelli che sventolavano dietro di lui come un’orifiamma. Obbedendo all’antica etichetta, Kergan Banbeck guardò oltre, fingendo che non esistesse neppure. Dopo una rapida occhiata, l’Armiere fece altrettanto.

— Richiedo che lasciate liberi gli abitanti di Aerlith prigionieri sulla vostra nave — disse Kergan Banbeck con voce secca.

Sorridendo, l’Armiere scosse il capo, e fece del suo meglio per farsi capire. — Quelle persone non sono in discussione. Il loro… — Fece una pausa, cercando le parole. — Il loro destino è… parcellizzato, quantificato, ordinato. Stabilito. Non c’è altro da aggiungere.

Il sorriso di Kergan Banbeck divenne una smorfia cinica. Restò chiuso in un silenzio altero, mentre l’Armiere continuava a gracchiare. Il sacerdote si fece avanti lentamente, pochi passi alla volta. — Devi capire — disse l’Armiere — che esiste un modello degli eventi. È funzione di quelli come me plasmare gli eventi affinché si conformino al modello. — Si chinò, muovendo elegantemente un braccio, e afferrò un ciottolo aguzzo. — Come posso modellare questo pezzo di pietra perché si adegui a un’apertura rotonda.

Kergan Banbeck tese la mano, prese il ciottolo e lo lanciò in alto, sopra i macigni ammassati. — Non modellerai mai quel pezzo di pietra per adattarlo a un foro rotondo.

L’Armiere scosse il capo, con aria di blanda riprovazione. — Ci sono sempre altre pietre.

— E ci sono sempre altri fori — dichiarò Kergan Banbeck.

— Parliamo sul serio, allora — disse l’Armiere. — Io propongo di modellare la situazione nella sua forma esatta.

— Che cosa offri in cambio dei ventitré greph?

L’Armiere scrollò le spalle, inquieto. Le idee di quell’uomo erano folli, barbare e arbitrarie quanto le creste laccate della sua acconciatura. — Se lo desideri io ti darò istruzioni e consigli, affinché…

Kergan Banbeck fece un gesto brusco, improvviso. — Pongo tre condizioni. — Il sacerdote, adesso, era a dieci passi, il volto cieco, lo sguardo vago. — Prima — disse Kergan Banbeck — una garanzia contro futuri attacchi ai danni degli uomini di Aerlith. Cinque greph dovranno rimanere in nostra custodia, in qualità di ostaggi. Seconda, sempre per assicurare la validità perpetua della garanzia, dovete consegnarmi un’astronave, equipaggiata, energizzata e armata. E dovete insegnarmi a usarla.

L’Armiere ributtò la testa all’indietro ed emise, dal naso, una serie di suoni belanti.

— Terza condizione — continuò Kergan Banbeck — dovete liberare tutti gli uomini e le donne che si trovano a bordo della vostra nave.

L’Armiere sbatté le palpebre, pronunciò rapide parole rauche di sbalordimento, rivolgendosi ai Battitori. Questi si agitarono, inquieti e impazienti, osservando di straforo Kergan Banbeck come se fosse non solo un selvaggio, ma anche un pazzo. Il velivolo stava librato lassù; l’Armiere alzò lo sguardo e parve trarre incoraggiamento da quella vista. Rivolgendosi a Kergan Banbeck con un nuovo atteggiamento di fermezza, parlò come se il precedente dialogo non fosse mai avvenuto. — Sono qui per dirti che i ventitré Riveriti debbono venire immediatamente rilasciati.

Kergan Banbeck ripeté le sue richieste. — Dovete fornirmi un’astronave, non dovete più compiere scorrerie, dovete liberare i prigionieri. Sei d’accordo, sì o no?

L’Armiere sembrava confuso. — È una situazione bizzarra… indefinita, inquantificabile.

— Non riesci a capirmi? — latrò Kergan Banbeck, esasperato. Lanciò un’occhiata al sacerdote, un atto di decoro discutibile, poi si comportò in modo totalmente anticonvenzionale: — Sacerdote, come posso trattare con questo idiota? Sembra che non mi ascolti.

Il sacerdote si avvicinò di un altro passo, con la stessa espressione blanda e vacua. Poiché viveva secondo una dottrina che vietava ogni interferenza attiva o intenzionale negli affari degli altri umani, poteva dare a ogni domanda solo una risposta specifica e limitata. — Ti ascolto, ma tra voi non esiste alcun incontro di idee. La struttura del suo pensiero è derivata da quella dei suoi padroni. È incommensurabile con la tua. E non so dire come tu possa trattare con lui.

Kergan Banbeck guardò di nuovo l’Armiere. — Hai sentito ciò che ti ho chiesto? Hai compreso le mie condizioni per la liberazione dei greph?

— Ti ho udito distintamente — rispose l’Armiere. — Le tue parole non hanno significato, sono assurdità, paradossi. Ascoltami con attenzione. È ordinato, completo, un quanto del destino, che tu ci renda i Riveriti. È irregolare, non è ordinato che tu debba avere una nave, o che le altre tue richieste vengano accolte.

Il volto di Kergan Banbeck s’imporporò. Si girò a mezzo verso i suoi uomini ma, trattenendo la collera, parlò lentamente e con meticolosa chiarezza. — Io ho qualcosa che voi volete. Voi avete qualcosa che io voglio. Trattiamo.

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