«Ma se vengono da Vega» aveva detto Carol, rabbrividendo e guardando il cielo profondo nel quale le stelle scintillavano anche in pieno giorno «se vengono da Vega, Ken, non possono essere come noi. Nessuna creatura umana potrebbe più essere come noi, dopo tanta lontananza.»
Kenniston rimase colpito nel sentire i suoi stessi pensieri espressi dalla fanciulla, ma disse, in tono rassicurante: «Non possono aver mutato molto, immagino. E gli altri, gli... umanoidi, potranno avere un aspetto molto strano, ma saranno comunque nostri amici.»
Si trattava proprio della medesima cosa che il sindaco Garris aveva annunciato alla popolazione.
«Qualunque sia l’aspetto dei nuovi venuti, debbono essere trattati col dovuto rispetto. Una buona prigione sarà destinata a chiunque li disturbi. Avete capito bene? Qualunque sia il loro aspetto, dovrete trattarli come se fossero uomini!»
Ma sentire è una cosa, e vedere è un’altra. E ora, le dita di Carol stringevano convulsamente la mano di Kenniston e il corpo di lei si stringeva spaventato a quello di lui. La folla, che si era radunata per assistere a quel secondo ingresso degli incredibili visitatori, rimase ora sbalordita, stupefatta, atterrita. Si udivano bisbigli sommessi, si vedevano persone appartarsi timorose.
Uno di quegli esseri era grosso e pesante, e procedeva ondeggiando sulle gambe massicce. La sua pelle, grigia e rugosa, ricadeva in grosse e pesanti pieghe. Il viso era largo e piatto, senza espressione, con occhi piccoli e saggi, da vecchio, che guardavano con acuta comprensione la folla attonita e silenziosa al suo passaggio.
Altri due, invece, erano magri e scuri, e si muovevano come cospiratori, avvolti in mantelli neri. La loro testa sottile era senza peli e lo sguardo era intelligente ed espressivo. Kenniston si accorse di colpo, con un sussulto di raccapriccio, che quei mantelli non erano altro che ali, che essi tenevano strette attorno al corpo.
Ve n’era un altro, che aveva una grazia tutta particolare e sembrava che scivolasse, invece di camminare. Dava subito l’idea di forza e il suo portamento era sprezzante e orgoglioso. Era molto bello, con una criniera di pelliccia, bianca come la neve, che gli partiva dalla fronte, e aveva una sottile espressione di crudeltà.
Questi quattro, e in più Gorr Holl che la folla aveva già visto, erano simili a uomini, ma non erano uomini. Erano figli di altri mondi lontanissimi, e camminavano ora, con piena disinvoltura, sulla vecchia Terra.
«Ma sono orribili!» bisbigliò Carol, tirandosi indietro. «Sono perfino sacrileghi. Come puoi sopportare di stare vicino a questi esseri?»
Kenniston lottava egli stesso contro un sentimento di repulsione. Gli abitanti di Middletown guardavano a bocca aperta, bisbigliando turbati e arretrando, in parte per un sentimento di timore nei confronti del soprannaturale, in parte per una pura avversione razziale. Era difficile ammettere che quegli esseri non umani esistessero, ma ancora più difficile era l’accettarli come eguali, come propri simili. Un animale era un animale e un uomo era un uomo, e non vi poteva essere alcuna via di mezzo...
Diversamente la pensavano i bambini di Middletown. Essi trascuravano del tutto gli uomini veri e propri che passavano abbronzati davanti a loro, e si affollavano invece attorno agli umanoidi. I bambini non avevano nessuno dei preconcetti dei loro genitori. Quelle erano per loro creature da fiaba divenute realtà, e ciò li eccitava molto.
Piers Eglin si avvicinò a Kenniston.
«Hubble ha fatto aprire le sale dei generatori atomici» disse Kenniston. «Ci attende là. Vi condurrò io.»
Egli sospirò.
«Grazie!» disse. Aveva un’aria infelice. Kenniston salutò in fretta Carol e si incamminò a fianco dello storico.
«C’è qualche cosa che non va?» gli domandò.
«Ho avuto ordini» spiegò Piers Eglin. «Debbo fare da interprete e debbo insegnare ad alcuni di voi la nostra lingua.» Scosse il capo deluso. «Ci vorranno molti giorni, e quella vostra vecchia città... Avrei già dovuto essere là da tempo, a visitarla, e invece...»
Kenniston sorrise.
«Cercherò di imparare presto» disse.
Si avviarono verso il punto in cui Hubble aspettava, e Kenniston poteva sentire dietro di sé i passi inconsueti di quegli altri individui che non erano umani. Gli sembrava incredibile, dover lavorare a fianco di quegli esseri che gli davano un brivido ogni volta che passava loro vicino. Certamente non potevano comportarsi come uomini!
Entrarono nell’edificio, poi in una enorme sala piena di strutture torreggianti e polverose che racchiudevano i meccanismi che né lui né Hubble erano riusciti a comprendere e a usare. Hubble si unì a loro, guardando incuriosito gli umanoidi.
«Abbiamo supposto che questi fossero i generatori atomici principali» disse Kenniston. Parlava a Piers Eglin, in quanto questi doveva tradurre, ma guardava Gorr Holl e gli altri quattro che stavano ritti accanto a lui. «Se potete davvero ripararli e metterli in funzione, noi...»
Ma si interruppe. Quelle cinque paia di occhi, strani e soprannaturali, lo osservavano; Kenniston vedeva i loro cinque corpi respirare e agitarsi. La cresta di pelliccia bianca sul cranio di quello dall’aria più orgogliosa si rizzò d’un tratto, in modo talmente animalesco che Kenniston capì quanto fosse impossibile tentare di considerarli esseri umani. Il dubbio, il disgusto, e anche un certo timore, gli si dipinsero sul viso. Piers Eglin aggrottò un poco la fronte.
Lavorando attorno ai polverosi generatori atomici, Gorr Holl si trasformò immediatamente da essere assurdo in un tecnico di alta abilità. Facendo funzionare certe leve nascoste, aprì il pannello di copertura di uno dei grossi meccanismi, prima che Kenniston potesse capire come avesse fatto. Poi da una borsa appesa al finimento di cui era vestito, estrasse una lampada e, facendosi luce, ficcò la testa pelosa dentro il meccanismo. Lo si udiva borbottare fra sé qualche cosa, in tono di disapprovazione. Infine, Gorr Holl ritirò la testa dal meccanismo e parlò in modo disgustato. Eglin tradusse, nel suo inglese stentato.
«Dice che questo vecchio impianto è stato malamente progettato e si trova in cattive condizioni. Dice che vorrebbe avere tra le mani i tecnici che lo hanno costruito.»
Kenniston scoppiò in una risata. Quel grosso Gorr Holl assomigliava in tutto a un autentico tecnico riparatore della Terra.
Mentre Gorr Holl esaminava gli altri generatori, Piers Eglin subissava Hubble e Kenniston di domande sul loro tempo lontano. Kenniston riuscì finalmente a fargli, a sua volta, una domanda che gli premeva molto ma che né lui né Hubble avevano ancora potuto fare.
«Ma perché la Terra è ora senza vita? Che è accaduto a tutti i suoi abitanti?»
«Molto tempo fa» disse Piers Eglin «gli abitanti della Terra sono emigrati in altri mondi. Ma non sugli altri pianeti del sistema solare: anche questi erano freddi e Venere era troppo coperta di acque e disponeva di troppo poca superficie solida. Sono perciò andati nei mondi di altre stelle, al di là della Galassia.»
«Ma alcuni di loro saranno pur rimasti sulla Terra» obiettò Kenniston.
«Lo hanno fatto» rispose Eglin, scuotendo le spalle «finché la temperatura è divenuta così fredda che anche in queste città coperte da una cupola la vita è divenuta difficile. Allora, anche gli ultimi uomini se ne andarono verso mondi che avevano soli più caldi.»
«Nella nostra epoca non eravamo nemmeno riusciti a raggiungere la Luna» disse Kenniston. Tutto quel racconto gli dava le vertigini. “Nei mondi di altre stelle, al di là della Galassia...” aveva detto Eglin.
Gorr Holl si riavvicinò infine a loro, e parlò a lungo. Eglin tradusse.
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