All’interno infatti era sorta una nuova costruzione, completamente rinforzata. Di questo era sicuro. I vecchi muri di mattoni all’esterno non erano che il guscio, la mimetizzazione dello stabile interno che era più piccolo di venti metri per ogni lato. Ma i vecchi piani che stavano tra la vecchia costruzione e i muri esterni erano stati conservati, altrimenti il guscio non avrebbe resistito: i piani formavano quindi un corridoio intorno al perimetro della casa.
Ci dovevano essere ancora un sacco di cose da finire, ma non aveva avuto modo di sapere come i lavori procedessero. Le lettere di Orcutt erano state troppo generali e le sue spiegazioni al telefono troppo controllate per essere chiare. Aveva desiderato ardentemente di tornare, per poter rendersi meglio conto.
Si calcò bene il cappello contro il vento insistente di marzo, attraversò la strada ed entrò nel palazzo.
— Signor Traylor! — Allo sportello delle informazioni c’era una ragazza di cui non ricordava bene il nome, che si alzò e gli sorrise. Osservò che il muro interno era disseminato di pannelli e che l’area esistente fra questo e la facciata dello stabile era occupata da diversi tavoli messi un po’ a caso.
— Siete il signor Traylor, vero?
— Già. — Le ricambiò il sorriso e oltrepassò il cancelletto divisorio. — Come va?
— Tutto bene — ma appariva un po’ a disagio. — Scusatemi ma debbo accertare la vostra identità.
— Naturalmente — disse Devan e tolse dal portafogli la patente. — Non mi ricordo come vi chiamate.
— Sono Dorothy Janssen — rispose la ragazza, prendendo la licenza di Devan con mani tremanti.
— Stavate nella parte est dell’impianto, no?
— Sì — essa rispose e apparve più sollevata dopo avergli reso il documento con un magnifico sorriso.
— Grazie, signor Traylor.
— E mi raccomando, continuate ad accertarvi dell’identità di quelli che entrano.
Indisturbato, oltrepassò poi la porta che conduceva a un corridoio della lunghezza dello stabile. A destra c’era il muro della vecchia costruzione, a sinistra la parete di cemento della costruzione interna.
Sul dietro c’erano le stesse scale che aveva salito con Orcutt per arrivare alla baracca di legno del secondo piano, baracca che ora non c’era più, sostituita da una stanza molto più grande.
Devan girò a sinistra e, attraversando il vecchio pavimento di legno, si diresse a una porta praticata sul muro interno. Lì vicino ci doveva essere un’entrata molto grande per il passaggio di mezzi di qualsiasi dimensione.
Premette un bottone rosso nel muro. La porta si aprì quasi subito e si trovò in un piccolo locale dalla luce bassa, mentre alle sue spalle la porta si richiuse con uno scatto metallico.
Fu interpellato da un apposito addetto che si affacciò al banco, dicendosi già informato del suo arrivo dalla signorina Janssen; gli consegnò un contrassegno da sistemare dietro il risvolto della giacca. Devan stupito riconobbe una sua vecchia foto e si chiese dove diavolo l’avessero pescata. Firmò poi il registro nella colonna che gli venne indicata e notò che, vicino a quella, ce n’era un’altra nella quale si doveva riportare l’ora di uscita dallo stabile interno.
L’agente addetto premette un altro bottone e così poté passare nell’enorme locale adibito a laboratorio. Notò come i lavori fossero stati condotti con grande alacrità e precisione. Molti strumenti erano in funzione e i loro rumori si fondevano in un assordante concerto di martelli, trapani e cento altre voci che non riusciva a distinguere. Nel centro della stanza troneggiava una impalcatura quasi completa, sulla quale venivano già montati i primi pezzi del gigantesco tubo di Costigan.
Alcuni operai stavano disponendo lungo i muri alla sua destra i pannelli di controllo, mentre a sinistra si staccavano dalla parete i box di cemento che costituivano gli uffici di ricerca. Su tutto dominava il vasto progetto che non rivelava, all’aspetto, la sua vera natura.
Si diresse verso gli uffici a sinistra dove, in fondo, ci doveva essere l’ufficio di Costigan. Vide facce nuove, in giro. A tratti qualcuno riconoscendolo lo salutava con la mano.
Entrato nell’ufficio di Costigan, completamente isolato dai rumori dell’esterno, notò con stupore che il dottore era assente.
— Il dottor Costigan non c’è. — Chi aveva parlato era una ragazza che sino a quel momento era stata china sul tavolo da disegno, manovrando un tiralinee in su e in giù. Con un gesto tipicamente femminile spostò una ciocca di capelli da un occhio. — Posso fare qualcosa per voi? — Era la prima volta che la vedeva e Devan si sorprese a fissare con vivo interesse i suoi occhi azzurri che lo osservavano, affascinato dal gesto pieno di grazia col quale si era ricacciata indietro i capelli ribelli. Poteva avere venticinque anni. La piccola testa aveva capelli neri lunghi sino alle spalle: sopra il vestito portava un camiciotto da pittore.
— È via da molto? — chiese Devan.
— Non tanto. Desiderate aspettarlo? — Lo esaminò con curiosità.
— Sentite — disse Devan — mi chiamo Devan Traylor. Arrivo in questo momento dalla Florida per vedere a che punto è il progetto. Credevo di trovare il dottor Costigan nel suo ufficio. Dove può essere?
— Ma… — Evidentemente non voleva parlare. — Non è lontano di qui. Lo posso rintracciare se si tratta di una cosa importante. Vi chiamate Traylor, vero?
— Sì. Ma prima di uscire, vi spiacerebbe dirmi dove si trova?
— Mi spiace, ma non posso.
Non insistette e ne osservò intanto i preparativi rapidi per uscire dall’ufficio, che consistettero nel togliersi il camiciotto e infilare un “cardigan”. Veramente attraente con quel golfino. “Chi può essere?” si chiese di nuovo.
La ragazza uscì, sorridendogli e assicurandogli che sarebbe tornata subito.
Devan fu tentato di seguirne i movimenti, ma si trattenne. Sperava solo vivamente che non fosse andata a. telefonare in qualche altro ufficio per scovare il dottore, magari, in una taverna. Rientrò dopo pochi istanti.
— Viene subito — disse. — Sarà questione di qualche minuto.
— Viene da lontano? — chiese Devan.
— Non proprio.
— Non parlate molto, direi.
— Dipende.
— Ottima cosa.
— Che cosa?
— Parlare solo all’occorrenza e non fuori luogo. Come vi chiamate?
— Betty Peredge.
— A quanto pare lavorate per il dottor Costigan.
— Infatti. Sono qui da un mese.
— Mai lavorato per la “Inland”, prima?
— No, sono venuta al posto della signora Tudor che lavorava per il dottor Costigan prima di me, ora è ammalata. Fu proprio per coincidenza che sia capitato a me di avere questo posto.
Devan aveva intanto notato due piante sulla finestra. Una aveva lunghe foglie strette orlate di giallo e l’altra era una pianta di violette, dalle foglie insolitamente carnose e dai fiori veramente stupendi.
— Sono vostre quelle piante o della signora Tudor? Immagino che non siano del dottor Costigan.
— Sono mie, infatti. Mi piacciono e il dottor Costigan mi ha permesso di tenerle qui. Quella fiorita è una qualità di violetta africana, l’altra ha strani nomi come “pianta del serpente” e “lingua della suocera”, oltre naturalmente quello botanico.
— Che cosa pensate del progetto, signorina Peredge?
Chiuse con il tappo la bottiglietta dell’inchiostro e si volse divertita verso di lui. — Sono piuttosto attaccata all’“Ago di Costigan”.
— L’Ago di Costigan?
— Be’ — rispose la ragazza — dovete ammettere che assomiglia stranamente a un ago con la cruna in fondo.
Infatti, a pensarci bene, ammise Devan, nonostante le enormi proporzioni, assomigliava veramente a un ago dalla cruna individuabile nella grossa cavità praticata alla base.
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