La regina fece uscire l’ancella senza che tra noi ci fosse nemmeno una parola. Io diedi un pugno al ragazzo stupito, lo spogliai e guardai Elena infilarsi i suoi stracci sulla camicia corta. Indicò una semplice cassa di legno, larga la metà dell’apertura della mie braccia, e mentre io la tenevo alzata lei ne trasse da sotto una piccola scatola.
Sempre senza parlare uscimmo dalla tenda, oltrepassammo le donne e le guardie distratte e ci dirigemmo verso la riva del fiume, dove Lukka e i suoi uomini ci aspettavano con cavalli, asini e carri tirati da buoi.
Lasciammo l’accampamento nel buio della notte, come una banda di ladri. Cavalcando su una coperta ripiegata più volte che quella gente faceva passare per sella, mi voltai a guardare un’ultima volta le rovine di Troia, le sue mura un tempo fiere già sgretolate e simili a fantasmi nella fredda luce argentata della luna che sorgeva.
Il terreno tremò. I nostri cavalli sbuffarono e nitrirono, impennandosi nervosamente.
— È Poseidone che parla — disse Polete dal suo carro con voce debole ma comprensibile. — La terra tremerà ancora per la sua collera. Finirà l’opera di distruzione delle mura di Troia.
Il vecchio stava predicendo un terremoto. Violento. Un’altra buona ragione per noi per andare il più lontano possibile.
Guadammo il fiume e ci dirigemmo a sud. Verso l’Egitto.
Come Lukka aveva predetto, il nostro viaggio non fu né facile né pacifico.
L’intero mondo sembrava in conflitto. Viaggiammo lentamente lungo la costa collinosa, attraverso regioni che i soldati Hatti chiamavano Assuwa e Seha. Sembrava che ogni città, ogni villaggio, ogni fattoria fosse in armi. Bande di predoni si aggiravano nella campagna, alcuni parte di antiche unità Hatti proprio come il contingente di Lukka, ma per lo più semplicemente briganti.
Combattevano quasi tutti i giorni. La gente si uccideva per un paio di polli o addirittura per un uovo. Perdemmo alcuni dei nostri uomini in queste schermaglie, e ne guadagnammo altri da bande diverse che si offrivano di unirsi a noi. Non accettai mai nessuno che anche Lukka non approvasse, e lui accolse solo altri professionisti hatti. Il nostro gruppo rimase di circa trentacinque elementi, uno più uno meno.
Io continuavo ansiosamente a guardarmi le spalle, ogni giorno, aspettandomi di vedere Menelao a capo delle sue forze all’inseguimento della sua ricalcitrante regina. Ma se gli Achei ci stavano seguendo, non ne vidi segno. E di notte dormivo senza che Apollo o Zeus o nessuno di loro venisse a farmi visita. Forse erano occupati da qualche altra parte. O forse, qualunque destino mi avessero preparato, l’avrei incontrato solo in Egitto, dentro la tomba di un re.
Cominciò la stagione delle piogge, e anche se trasformò le strade in pantani scivolosi e viscidi facendoci sentire miseri e infreddoliti, impedì alla maggior parte delle bande di briganti di compiere le loro scorribande assassine. Alla maggior parte. Riuscimmo a sfuggire a una trappola sulle colline al di sopra di una città che Lukka chiamava Ti-Smurna, e Lukka stesso venne quasi ucciso da un contadino che pensava che stessimo dando la caccia a sua moglie e alle sue figlie. Sporco e puzzolente, il contadino si era nascosto al riparo di una misera stalla, una bassa spelonca a cui aveva messo una porta, e aveva lanciato un forcone contro la schiena di Lukka quando lui era entrato a prendere un paio di agnelli. Era al cibo che davamo la caccia, non alle donne. Avevamo pagato la moglie del contadino con un monile del bottino di Troia, ma l’uomo si era nascosto appena ci aveva visto, aspettandosi che violentassimo le sue donne e bruciassimo quello che non potevamo portare via.
Così aveva cercato di colpire Lukka, alle spalle, uno sguardo omicida negli occhi spaventati e vili. Per fortuna io ero abbastanza vicino da mettermi di mezzo, deviando il forcone con il braccio.
Il contadino si aspettava di essere ucciso, ma noi l’avevamo lasciato lì, tremante, inginocchiato nello sterco dei suoi animali. Lukka parlò poco, come al solito, ma quello che disse significava molto.
— Ancora una volta ti devo la vita, mio signore Orion.
Io risposi con noncuranza: — La tua vita è molto importante per me, Lukka.
Non dormivo con Elena. Neanche la toccavo. Lei viaggiava con noi come parte del gruppo, senza lamentarsi delle difficoltà, degli spargimenti di sangue, del dolore. Di notte si faceva il letto da sola, con le coperte per i cavalli, e dormiva un po’ discosta dagli altri. Ma sempre più vicina a me che a chiunque altro. Io mi accontentavo di essere il suo guardiano, non il suo amante. Se questo la sorprendeva, non ne fece mai cenno. Non portava gioielli e non si truccava più. I suoi abiti erano semplici e rozzi, adatti al viaggio.
Ma era sempre bella. Non aveva bisogno di trucco o di vesti o di gioielli. Persino con il viso imbrattato di fango e i capelli legati sotto il cappuccio di un lungo mantello sporco, niente poteva nascondere quei grandi occhi azzurri, quelle labbra sensuali, quella pelle purissima.
Polete stava riprendendo le forze e anche un po’ del suo cinismo. Viaggiava in un carro cigolante tirato da buoi e tormentava chiunque fosse alla guida perché gli raccontasse tutto quello che vedeva, ogni foglia e roccia e nuvola.
Efeso fu la sola eccezione a una litania di combattimenti. Avevamo passato la giornata arrancando stancamente in salita sotto un furioso temporale, bagnati fradici, infreddoliti e doloranti. Circa la metà degli uomini montava cavalli o asini. Elena cavalcava vicino a me su un piccolo pony bigio, avvolta in un mantello blu scuro con il cappuccio, zuppo e pesante di pioggia. Avevo mandato avanti tre dei nostri uomini, a piedi, in esplorazione. Altri ci seguivano, alla retroguardia, per avvisarci di eventuali banditi nascosti alle nostre spalle. O di Achei.
Quando arrivammo in cima alla collina, vidi uno dei nostri esploratori che ci aspettava sul ciglio di una strada fangosa.
— La città — indicò.
La pioggia stava diminuendo, ed Efeso si stendeva sotto di noi in uno sprazzo di sole che si era fatto strada tra le nuvole. La città brillava come una promessa di tepore e benessere, con il marmo bianco luccicante nella luce.
Sembrammo tutti riprendere le forze a quella vista, e scendemmo lungo la strada tortuosa, giù dalla collina, verso il porto.
Efeso è dedicata ad Artemide Guaritrice — disse Lukka. — La gente arriva qui da tutte le parti del mondo per essere guarita dai suoi mali. C’è una sorgente sacra la cui acqua ha poteri curativi miracolosi. — Aggrottò leggermente la fronte, come seccato della sua stessa creduloneria. Poi aggiunse: — Così mi hanno detto.
Non c’erano mura intorno ad Efeso. Nessun esercito aveva mai cercato di occuparla o saccheggiarla. Per una specie di accordo internazionale, quella città era dedicata alla dea Artemide e alle sue arti risanatrici, e nemmeno il più barbaro dei re avrebbe osato attaccarla, per paura di cadere, con tutto l’esercito, sotto gli strali invisibili della dea, portatori di peste e morte dolorosa.
Elena, sentendo Lukka che mi spiegava queste cose, cavalcò vicino a noi. — Artemide è la dea della luna, sorella di Apollo.
Questo mi fece accelerare il cuore. — Allora ha favorito Troia nella guerra.
Elena fece spallucce sotto il mantello zuppo. — Penso di sì. Non è servito a niente però, giusto?
— Ma sarà adirata con noi — disse Lukka.
“Lo è di più suo fratello anche se in realtà non sono fratello e sorella.” Mi sforzai di ridere e dissi a Lukka: — Certamente non crederai che gli dèi e le dee serbino rancore.
Lui non rispose, ma l’espressione del suo viso severo non era di felicità.
Qualunque fosse la sua divinità protettrice, Efeso era la civiltà. Persino le strade erano pavimentate di marmo. I templi maestosamente circondati di colonne di marmo bianco scanalato erano centri di cura come di culto. La città era abituata ad ospitare visitatori, e c’erano moltissime locande. Scegliemmo la prima che trovammo, in periferia. Era quasi vuota, dal momento che i pochi che viaggiavano durante la stagione delle piogge preferivano stare nel cuore della città o vicino alle banchine dove arrivavano le navi.
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