— Certo. Questo lo sanno tutti — disse Frederick.
— No, non tutti. Le masse si aspetteranno sempre che le vostre navi spaziali le trasportino verso nuovi mondi, dove cominceranno una vita nuova, libere dalla Terra. E quando noi diremo loro che questo è impossibile, loro non crederanno alle nostre parole. Come risultato, avremo proteste, rivolte e tumulti. — Kobryn scosse la testa. — Non possiamo permettere che questo avvenga. Sono sinceramente addolorato.
Frederick si rimise a sedere.
— E poi — gli disse Kori, — spenderanno a proprio beneficio il denaro che serviva a noi.
Il professor DeVreis era di nuovo in piedi. — Ministro Kobryn, avete condannato all’esilio perpetuo migliaia di uomini, donne e bambini. Naturalmente, noi respingiamo in blocco questa decisione. Essa è assolutamente antitetica allo spirito del governo mondiale e della libertà umana. Chiediamo un dibattito libero e aperto, davanti al Consiglio dei Ministri, all’Assemblea e alla Corte Costituzionale Mondiale.
La faccia di Kobryn s’indurì. La sua figura gigantesca dominò, dagli schermi, la fragile persona del vecchio scienziato. — Non mi avete capito. La decisione è già stata presa. È definitiva. Senza appello. Domani sarete trasportati sulla stazione orbitale.
Il quadro si spense e gli astanti, sbigottiti, rimasero seduti, in silenzio.
Il giorno dopo, a metà del pomeriggio, una decina di uomini e le rispettive famiglie furono prelevati dalla villa da individui silenziosi, che indossavano una divisa anonima. I Kaufman e i Sutherland furono i primi a partire.
Prima i capi! Gli altri non faranno difficoltà, si disse Lou.
Lou si aggirava per la villa, senza scopo. Tutti sembravano in preda a shock. La gente si riuniva in gruppetti, in gran parte formati da familiari, e tutti parlavano a voce bassa, spaurita. Lou era solo, completamente isolato. Non aveva famiglia, neanche la sua ragazza.
Ripetutamente, un minibus lucido e nero risaliva il viale d’accesso e ne scendevano due uomini che entravano e percorrevano l’antica dimora finché trovavano la persona che cercavano. Pochi minuti di conversazione, e poi tutta la famiglia, attonita e sconvolta, seguiva gli uomini lungo il viale, si accalcava a bordo del minibus e partiva.
Lou, dal balcone che si affacciava sull’ingresso principale, stava a guardare uno degli autobus che percorreva il viale traballando, e svoltava nella strada, sollevando una nuvola di polvere. La sera prima c’era stato un acquazzone, ma la terra, nel pomeriggio, era di nuovo arida. Lou alzò gli occhi. Il cielo era luminoso, ma laggiù, sul mare, erano ricomparsi i nuvoloni neri.
Un minuscolo e agile turbocar percorreva la strada in direzione della villa, con la capote abbassata e due uomini sul sedile anteriore. Svoltò sollevando un grande polverone nel viale d’accesso e puntò verso l’ingresso. Seduto accanto al guidatore, c’era lo scandinavo. Alzò gli occhi al balcone e sorrise.
— Vedo che siete disposto a collaborare, dato che ci aspettate — si rivolse a Lou. — Vi dispiace venire con noi?
Suo malgrado, Lou si allarmò. Tocca a me.
— Signor Christopher — disse il nordico — non farete colpi di testa, spero.
Lou lo guardò, rabbioso. Senza una parola, rientrò e si diresse verso lo scalone che scendeva nell’atrio.
Il cielo ormai era carico di nuvole nere e la luce del tardo pomeriggio aveva preso un riflesso giallo elettrico, carico di minaccia, e nell’aria aleggiava l’odore umido del temporale imminente. Era fresco e eccitante stare sul sedile posteriore della macchina scoperta, con un vento teso e forte, che faceva svolazzare abiti e capelli e costringeva a chiudere gli occhi e a tenere strette le labbra, mentre l’auto filava rombando. Scesero a tutta velocità la polverosa strada costiera e s’immersero nella grande autostrada di plastacciaio. Per diversi chilometri, l’unico veicolo sulla strada fu la decapottabile, poi, a poco a poco, il traffico s’intensificò. Adesso Lou intravvedeva in lontananza, tra le colline, i grattacieli di una città, mentre pesanti autotreni li superavano fischiando, sui loro reattori a cuscino d’aria, filando verso la città.
Lou ormai sapeva che era inutile fare domande. D’altra parte, era quasi impossibile sostenere una conversazione dal sedile posteriore della macchina in corsa, anche ammettendo che gli altri due volessero o potessero rispondergli. Se ne rimase seduto tranquillamente, godendosi il vento e osservando i nuvoloni che velavano il sole, rendendo cupo e tenebroso il paesaggio circostante.
Guarda bene tutto, si disse. Forse è l’ultima volta che vedi queste cose.
Incontrarono un po’ di pioggia. La decapottabile s’infilò, sempre col tetto abbassato, in un labirinto di sopraelevate alla periferia della metropoli; poi, nel momento in cui i primi goccioloni cadevano sulle gambe nude di Lou, imboccò una galleria. Il tunnel, con ogni probabilità, era fornito di isolamento acustico, perché, sebbene l’auto non rallentasse, il rombo della turbina non riecheggiava con fragore assordante sotto la galleria, come sarebbe successo in un sottopassaggio normale. Entrarono in una rimessa sotterranea e si fermarono davanti a una porta, priva di indicazioni. Lo scandinavo scese e tenne lo sportello aperto per Lou. Appena i due ebbero messo piede a terra, il guidatore accelerò e partì immediatamente.
Lo scandinavo precedette Lou all’interno del palazzo, lungo un corridoio e successivamente fino a un ascensore che era in attesa, con le porte aperte. L’uomo non perdeva d’occhio Lou e, al momento di entrare nell’ascensore, si tenne leggermente discosto, in modo da essere fuori tiro. Dopodiché entrò a sua volta, posò il dito sull’ultimo pulsante del quadro di comando e le porte si chiusero.
Mentre l’ascensore scivolava silenziosamente verso l’alto, l’uomo si voltò verso Lou. — Ho sentito dire che vi spediscono su un satellite.
— Siamo stati condannati all’esilio — disse Lou, sentendosi ribollire di rabbia.
— Sì, l’ho sentito dire.
— A vita.
Lo scandinavo annuì.
— Famiglie intere. Diverse migliaia di persone.
— Lo so… mi dispiace.
— Ne eravate al corrente, quando mi avete prelevato in Messico?
L’altro scosse la testa.
— Sarebbe stato diverso per voi, se aveste saputo che cosa intendevano fare di noi?
Lo scandinavo diede un’occhiata a Lou. — Facevo il mio lavoro…
— Sarebbe stato diverso? — insistette Lou.
— Ecco… no, non credo.
— E allora non venite a dirmi che vi dispiace.
— Ma…
— Piantatela.
L’ascensore si fermò e le porte scorrevoli si aprirono. Lou si aspettava di uscire in un atrio o in un corridoio. Invece si trovò direttamente in una stanza, lussuosamente arredata. Tappeto rosso, folto, una lunga tavola da conferenze circondata da poltrone, tutto in legno autentico, scuro. Due delle pareti erano di un color sabbia chiaro, la terza era occupata da un affresco astratto. L’estremità della sala era in plastiglass, ma dalla vetrata non si vedeva che caligine e scrosci d’acqua. Vicino alla finestra c’era una scrivania massiccia e alcune sedie girevoli di cuoio nero, che, per il momento, non erano occupate. L’aria era fresca e profumata, e tutto l’ambiente dava la sensazione dell’autorità e del potere.
— Aspettate qui — disse lo scandinavo.
Lou si voltò e vide che il suo accompagnatore non era uscito dall’ascensore. Con un soffio leggero, le porte si riaccostarono.
Lou, molto sorpreso, attraversò la grande stanza e andò alle finestre. Il tappeto magnifico attutva il rumore dei passi. In quel momento pioveva così forte che la città s’intravvedeva appena, in un profilo grigio, incerto. Lou sentì una porta che si apriva. Si voltò e vide entrare un signore di mezz’età, sorridente. Era più piccolo di Lou, alquanto tarchiato, ma ancora in forma. I capelli erano folti e scuri, sebbene la fronte avesse già cominciato a stempiarsi. Indossava un abito leggero.
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