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Bob Shaw: Il terzo occhio della mente

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Bob Shaw Il terzo occhio della mente

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Fu mentre si versava il caffè della prima colazione che John Redpath s’accorse qualcosa di “strano”, di qualcosa “che non andava”, pur non riuscendo a capire che cosa fosse… Restò un momento a guardarsi intorno, poi tese l’orecchio per sentire se, tra i rumori familiari del mattino presto, nello stabile in cui abitava, ne mancasse qualcuno, ovvero ce ne fossero degli insoliti… Questo tradizionale (e insuperato) modo di cominciare una storia di fs, ben pochi oggi possono permetterselo. Bisogna infatti che un romanzo possa competere con i classici, per non deludere le aspettative suscitate nel lettore da un inizio di questo tipo. Ma per Bob Shaw, autore di “Quando i Neutri emergono dalla Terra”, la difficoltà non esiste: ogni suo nuovo romanzo, comunque cominci, s’impone immediatamente come un classico.

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— È stupido — disse ad alta voce. — Conosco quei numeri. — Scrutò il lucchetto a occhi socchiusi, sforzandosi di ricordare; poi le sue dita si mossero, quasi da sole, a formare la combinazione 1-2-1-6. Non era per niente certo che fosse la sequenza esatta di numeri. Provò a tirare il lucchetto, che si aprì. Montò in sella, stranamente avvilito, e si mise a pedalare verso Leicester Road.

L’appartamento di Leila Mostyn si trovava al secondo piano di una casa situata a discreta distanza dalla strada. La piacevole architettura dell’edificio era parzialmente sfigurata dall’aggiunta recente di scalini di cemento, e quasi tutto il giardino sul davanti aveva lasciato posto a un parcheggio; però la casa aveva ancora un’aria di dolce isolamento. La prima volta che l’aveva vista, si era reso conto che corrispondeva perfettamente ai suoi preconcetti sul tipo di casa in cui Leila avrebbe accettato di vivere.

Oltrepassò il cancello, smontò all’ombra degli olmi superstiti, pensando con nostalgia ai primi giorni, a quel periodo troppo breve di intesa con Leila. La sua mini color rosso ciliegia era parcheggiata al solito posto, il che significava che Leila era ripartita dall’istituto prima di quanto lui avesse previsto. Tanto meglio: sarebbe stato più facile convincerla a lasciarlo entrare, se le si presentava davanti all’improvviso. Appoggiò la bicicletta a un albero, si girò verso la casa, e restò come paralizzato. La sua mente aveva registrato la presenza di una Triumph sportiva verde a fianco della mini di Leila. A Redpath le macchine non interessavano molto; per esempio, non guardava mai le targhe. Però sapeva che ogni auto assorbe dal proprietario una specie di pseudo-identità, e in questo caso c’era qualcosa di familiare nella posizione del bollo, nei segni di sporcizia che la pioggia aveva tracciato sul parabrezza e sulla carrozzeria. Si avvicinò alla macchina, guardò dentro, e vide sul sedile una cartelletta rosa contrassegnata dal marchio dell’Istituto Jeavons.

Henry Nevison!

Redpath tornò alla bicicletta e restò un attimo incerto, il palmo di una mano premuto sulla fronte. Le pietre a terra sembravano ondulare dolcemente, come se le stesse guardando attraverso alcuni centimetri di acqua chiara.

“Non significa niente. Soprattutto non significa che Leila ed Henry stiano… Insomma, Leila doveva tornare a casa a prendere alcune carte. Giusto? Carte urgenti. Carte che avrebbe dovuto portare all’istituto stamattina, perché Henry ne ha bisogno. Con ogni probabilità oggi lui ha una riunione da qualche parte, ed ecco spiegato il motivo per cui è venuto qui con lei, anziché aspettare che Leila gli portasse tutto nel pomeriggio. È perfettamente normale e ragionevole e innocente.”

“Ma chi vuoi prendere in giro, povero amico mio? E chi ha bisogno d’imparare la lezione?”

Redpath portò la bicicletta sul retro della casa, l’appoggiò a un capannone usato per riporre gli arnesi da giardino. Si inginocchiò e cominciò ad armeggiare col freno posteriore: dalla casa non potevano vederlo, e aveva anche una scusa se si fosse fatto vivo qualcuno. Comunque c’erano poche probabilità che lo scoprissero, perché a quell’ora la casa era praticamente deserta e il retro era ben nascosto da siepi e arbusti. Il rischio maggiore, per lui, era di trovarsi in una zona in ombra, con un notevole calo dell’intensità luminosa e una visuale limitata. In condizioni simili, il rischio di subire un attacco era forte; e probabilmente anche lo stare inginocchiato, posizione che creava scompensi di pressione, era pericoloso. La giornata aveva preso quella piega spaventosa proprio quando lui si era chinato a raccogliere la posta; e adesso non se la sentiva di avere altre visioni, fossero o non fossero telepatiche. Avrebbe fatto volentieri a meno di facce scorticate e di masse di sangue semi-coagulato. Soprattutto, non voleva vedere Henry attraverso gli occhi di Leila, o Leila attraverso gli occhi di Henry, se quei due stavano facendo quello che lui pensava, nella quiete immobile, atemporale, della camera da letto di Leila.

Redpath si guardò le mani, cercando di decidere se tremavano davvero o se gli ballavano gli occhi.

“Non mi piace questo effetto di ondulazione. Sembra tutto irreale, sembra di vedere solo immagini proiettate su uno schermo. Certo, è l’unico contatto che abbiamo col mondo esterno: due minuscole immagini proiettate su due minuscoli schermi dietro gli occhi. Chissà cosa si prova quando si staccano le retine, quando si arrotolano in su e anche il mondo si arrotola e scompare. ‘Chiediamo scusa’ ti dicono dalla sala di proiezione. ‘Interruzione tecnica. Lo spettacolo è terminato.’ Roba da morire…”

Il rombo del motore della Triumph si unì al battito del sangue che martellava nelle orecchie di Redpath. Alzò gli occhi e vide la macchina sportiva che si immetteva in Leicester Road, in un alone accecante di luce solare riflessa dai finestrini laterali. Nella sua testa restarono a danzare cerchi di fuoco viola.

Redpath si alzò, corse all’ingresso sul retro che immetteva in casa. Divorò gli scalini, che giravano sotto i suoi occhi come uno stroboscopio impazzito. Non c’era tempo da perdere. Doveva suonare subito alla porta di Leila, in modo che lei pensasse che Nevison era tornato e gli aprisse senza essere preparata mentalmente o fisicamente. “Così scoprirò la verità.” Arrivò al pianerottolo del secondo piano, alla porta verde oliva, e suonò. Non ebbe risposta. Cominciò a dondolarsi prima su un piede, poi sull’altro. Passava troppo tempo, si perdeva l’elemento sorpresa.

La chiave! Dov’era la chiave di cui Leila non gli aveva mai detto niente, la chiave che riponeva sempre senza farsi vedere da lui? Non sotto lo zerbino: troppo ovvio. Redpath alzò il vaso da fiori in plastica, ma sulla mensola non c’era niente. Stava per rimettere giù il vaso quando gli venne un’altra idea. Guardò sotto il vaso. La chiave era lì, tenuta ferma da un pezzetto di scotch. “Accidenti se è furba!” Prese la chiave, l’infilò nella serratura, e un attimo dopo era nel breve corridoio che si apriva su tutte le stanze dell’appartamento. Il suo respiro era affannoso, sibilante.

Leila apparve dalla cucina. Aveva in mano un bicchiere di latte ed era nuda, a parte un paio di pantofole e un triangolo di nylon bianco sul ventre. Spalancò occhi e bocca (due cerchi bianchi di paura, un cerchio rosa di colpa) appena vide Redpath.

— John! — Cercò di coprirsi il seno. — Cosa fai? Non hai il diritto!

Redpath le si avvicinò. — Non ne ho il diritto? Avrò almeno gli stessi diritti di Henry. Quindi tu devi essere giusta, devi fare parti uguali. E così che si comporta una donna liberata, no?

— Esci subito di qui.

— Inutile, Leila.

— Vuoi che chiami la polizia?

— Hanno diritto a qualcosina anche loro?

— Pazzo! Sei così… — Leila indietreggiò, poi improvvisamente si voltò e corse in cucina. Gettò il bicchiere di latte nel lavandino, rompendolo.

Redpath la seguì. Arrivò in tempo per vederla scomparire oltre la porta che dava in soggiorno. Il telefono suonò lievemente quando lei alzò la cornetta. Redpath trovò un coltello da cucina col manico di palissandro, lo prese. La lama scintillava gloriosamente.

Il coltello della liberazione!

“Se vuoi essere liberata, cara, ti libererò. Hai scelto l’uomo giusto.”

Balzò in soggiorno. Si muoveva così in fretta, così agilmente, che gli sembrava di volare. Leila era al telefono, girata di schiena. La sua schiena era morbida, liscia, immacolata, bella in modo quasi doloroso. Redpath la trafisse col coltello, in basso, a destra della spina dorsale. La forza della sua spinta mandò Leda a precipitare sul divano. Gemette raucamente, e il telefono le sfuggì di mano. Si voltò, lo guardò, tentò di spingerlo via, ma lui continuò a colpirla con furia mortale, alzando e abbassando il coltello all’infinito. Poco per volta, l’espressione offesa dei suoi occhi si mutò in sorpresa; e poi lei non fu più Leila, diventò una bambola a grandezza naturale che fissava il soffitto con uno sguardo vitreo, preoccupato.

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