Keith rimise a posto la penna, chiuse la valigia. Passeggiò nervosamente avanti e indietro per alcuni minuti, poi chiuse a chiave la propria valigia e lasciò la stanza.
Scese nell’atrio su uno scintillante ascensore di cristallo rosa e verde, e si fermò un momento a osservare la scena. Non si era aspettato nulla di così splendido; si chiese come Tamba Ngasi avrebbe guardato quella sala luccicante e i suoi ipersofisticati occupanti. Certo non con approvazione, decise Keith. Si diresse all’entrata contorcendo il volto in una smorfia di disgusto. Anche secondo i suoi gusti personali, l’Hotel des Tropiques era eccessivamente ricco, un po’ troppo fantasioso.
Attraversò la piazza, percorse il Viale dei Sei Guerrieri Neri fino al grottesco ma insolitamente impressionante Grande Parlamento di Lakhadi. Una coppia di appariscenti guardie nere, con sandali di metallo e gambali, e tuniche di pelle bianca a pieghe, scattarono in avanti e incrociarono le lance di fronte a lui.
Keith li esaminò altezzosamente. «Io sono Tamba Ngasi, Grande Parlamentare dalla Provincia di Kotoba.»
Le guardie non contrassero un muscolo; avrebbero potuto essere scolpite nell’ebano. Da un cubicolo laterale uscì un uomo bianco, basso e grasso, in pantaloni e camicia flosci color marrone. Abbaiò: «Tamba Ngasi, guardie, fate passare!»
Le guardie con un singolo movimento scattarono indietro. Il piccolo uomo grasso si inchinò cortesemente, ma sembrava non distogliere mai lo sguardo da Keith. «Sei venuto a iscriverti, Grande Parlamentare?»
«Precisamente. Dal Capoufficio.»
L’uomo basso chinò di nuovo la testa. «Io sono Vasif Doutoufsky, Capoufficio. Vuoi passare nel mio ufficio?»
L’ufficio di Doutoufsky era caldo e soffocante, l’aria era dolciastra di incenso alla rosa. Doutoufsky offrì a Keith una tassa di tè. Keith rispose con una brusca scrollata di capo, caratteristica di Tamba Ngasi, e Doutoufsky apparve vagamente sorpreso. Parlò in russo.
«Perché non sei andato in Rue Arsabatte? Ti ho aspettato là fino a dieci minuti fa.»
La mente di Keith vorticò come sui cuscinetti a sfere. In un russo non certo troppo disinvolto disse cupamente: «Ho avuto i miei motivi… C’è stato un incidente all’imbarcazione sul fiume, forse un’esplosione. Ho preso un tassì e sono arrivato a Dasai.»
«Ah,» disse Doutoufsky con voce sommessa. «Sospetti un’interferenza?»
«Se è così,» disse Keith, «può venire solo da una fonte.»
«Ah,» disse di nuovo Doutoufsky, con voce ancora più sommessa. «Vuoi dire…»
«I Cinesi.»
Doutoufsky studiò pensosamente Keith. «La trasformazione è stata eseguita bene,» disse. «La pelle è stata corretta con precisione, con toni e sfumature convincenti. Parli in modo un po’ strano.»
«Come parleresti anche tu, se avessi la testa imbottita come la mia.»
Doutoufsky arricciò le labbra come a una battuta riservata a loro due. «Ti trasferirai in Rue Arsabatte?»
Keith esitò, tentando di percepire quale rapporto intercorresse tra sé e Doutoufsky: inferiore o superiore? Inferiore, probabilmente, con i poteri e le prerogative del contatto, dal quale venivano le istruzioni e attraverso il quale le valutazioni raggiungevano il Cremlino. Un pensiero lo raggelò: Doutoufsky, e lui che era entrato nel gioco sotto le spoglie di Tamba Ngasi, potevano essere entrambi rinnegati russi, entrambi agenti cinesi nella più fantastica guerra mai combattuta. Nel qual caso la vita di Keith era in una posizione addirittura più precaria rispetto a solo mezz’ora prima… Ma questa era un’ipotesi di minore probabilità. Con voce autoritaria, Keith disse: «È stata messa un’automobile a mia disposizione?»
Doutoufsky sbatté le palpebre. «No, che io sappia.»
«Avrò bisogno di un’automobile,» disse Keith. «Dov’è la tua auto?»
«Di certo non è appropriato, signore…»
«Spetta a me giudicare.»
Doutoufsky sollevò il petto in un sospiro. «Farò venire una delle limousine parlamentari.»
«Che senza dubbio è efficacemente monitorizzata.»
«Naturalmente.»
«Preferisco un veicolo dove poter compiere le necessarie transazioni senza timore di testimoni.»
Doutoufsky annuì bruscamente. «Molto bene.» Gettò una chiave sul piano della scrivania. «Questa è la mia piattaforma aerea personale. Ti prego di usarla con discrezione.»
«Non è monitorizzata?»
«Sono certo di no.»
«La controllerò comunque a fondo.» Keith parlò con un tono di pacata minaccia. «Spero di trovarla corrispondente alla tua descrizione.»
Doutoufsky sbatté gli occhi, e con voce sottomessa gli spiegò dove avrebbe potuto trovare l’auto. «Domani a mezzogiorno il Parlamento si riunisce. Naturalmente ne sei al corrente.»
«Naturalmente. Ci sono istruzioni supplementari?»
Doutoufsky rivolse a Keith una fredda occhiata obliqua. «Mi domandavo quando le avresti chieste, dato che questa era specificamente l’unica ragione del nostro contatto. Non per fare lo spaccone, non per pretendere auto da diporto.»
«Contieni la tua arroganza, Vasif Doutoufsky. «Io devo operare senza interferenze. Esistono già lievi dubbi riguardanti le tue capacità; risparmiami la necessità di corroborarli.»
«Ah,» disse piano Doutoufsky. Aprì un cassetto e gettò sulla scrivania un piccolo chiodo di ferro. «Ecco le tue istruzioni. Hai la chiave della mia auto, hai rifiutato di usare l’alloggio a te destinato. Hai altre richieste?»
«Sì,» disse Keith con il suo sorriso da lupo. «Fondi.»
Doutoufsky gettò sulla scrivania un pacchetto di banconote. «Questi dovrebbero bastarti fino al nostro prossimo contatto.»
Keith si alzò lentamente in piedi. Sarebbero sorte delle difficoltà se fosse mancato ai contatti prestabiliti con Doutoufsky. «Certe circostanze possono rendere indispensabile un cambiamento di programma.»
«Davvero? E quali?»
«Ho saputo — da una fonte che non sono autorizzato a rilevare — che i Cinesi hanno scoperto un agente occidentale e gli hanno fatto il lavaggio del cervello. È stato individuato a causa della periodicità delle sue azioni. È meglio non fare piani precisi.»
Doutoufsky annuì gravemente. «C’è qualcosa di vero nelle tue parole.»
Al chiaro di luna la strada costiera da Fejo a Dasai era bella oltre ogni immaginazione. A sinistra si allargava l’infinita estensione del mare, la spuma delle onde e la pallida sabbia desolata; a destra crescevano cespugli di rovi, baobab, cactus spinosi, che si componevano in schemi angolari su ogni tono di argento, grigio e nero.
Keith aveva la sensazione ragionevolmente certa di non essere stato seguito. Aveva immerso con cura l’auto nelle radiazioni della sua torcia, per distruggere i delicati circuiti di una cellula spia con la corrente indotta. A metà strada per Dasai si fermò, spense le luci, e perlustrò il cielo con il radar nascosto negli amuleti che portava alle orecchie. Non riuscì a scoprire nulla; l’aria era limpida e deserta, e dietro a sé non sentiva nessuna auto. Colse l’occasione per inviare un messaggio al satellite. Dopo un’attesa di cinque minuti, udì lo scatto del collegamento di risposta. La voce di Sebastiani gli penetrò chiara e distinta nel cervello: «La coincidenza, tutto considerato non è stupefacente. I Russi hanno scelto Tamba Ngasi per la nostra stessa ragione: la sua reputazione di aggressività e indipendenza, la sua presumibile popolarità tra i militari, in opposizione al loro sospetto riguardo a Shgawe.
«Per l’alloggio in Rue Arsabatte, credo che tu abbia preso la decisione giusta. All’Hotel sarai meno esposto. Su Doutoufsky non abbiamo niente di definito. Apparentemente è un emigrante polacco, ora cittadino di Lakhadi. Puoi avere esagerato nell’assumere un atteggiamento di forza. Se ti coglie in flagrante, mostra una certa dose di contrizione e fagli presente che hai ricevuto istruzioni di cooperare maggiormente con lui.»
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