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Jack Vance: I racconti inediti

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Jack Vance I racconti inediti

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L’antologia di Jack Vance presenta al lettore i seguenti racconti di fantascienza: «ICABEM», «La selezione», «Il sifone plagiano», «Il fato del Phalid», «Il Tempio di Han», «Il figlio dell’albero» ed «I signori di Maxus».

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Adesso guidava lentamente, e in poco tempo trovò un punto dove il canale faceva un’ansa proprio sotto l’argine. Keith parcheggiò vicino a un grosso mucchio di bambù dalle giunture rosse, e fece i preparativi necessari. Tamponò poche once della supposta brillantina simile a cera attorno a una losanga stranamente pesante, che aveva preso da una confezione di pasticche per la tosse, e fissò il blocco a un legno asciutto con del nastro adesivo. Trovò una spoletta di corda sottile, legò un sasso a una estremità. Poi, facendo attenzione alle vipere palustri, ai coccodrilli, e alle enormi vespe che, rintanate lungo l’argine, sbattevano le ali con un crepitio secco si fece strada attraverso i larici fino alla riva del fiume. Srotolò cento piedi di corda, e lanciò legno e pietra quanto più possibile lontano in mezzo al fiume. La pietra andò a fondo, ormeggiando il bastone che adesso galleggi ava dalla parte opposta del canale, esattamente dove Keith voleva.

Passò un’ora, due ore. Keith si sedette all’ombra dei larici, circondato dall’odore resinoso delle foglie, dalle esalazioni palustri del fiume. Finalmente: il pulsare di un pesante motore diesel. Lungo il fiume scendeva un’imbarcazione tipica dei fiumi africani, lunga circa settanta piedi, con cabine di prima classe sul ponte superiore, e cubicoli di seconda classe sul ponte principale; i restanti passeggeri erano seduti, in piedi, accucciati o pigiati dovunque ci fosse un po’ si spazio.

L’imbarcazione si avvicinò, sbuffando in mezzo al canale. Keith raccolse la corda allentata, tirando il legno verso di sé. Sul ponte superiore era ritto un uomo alto, emaciato, dal volto scuro, ferino e intelligente sotto un turbante darshba : Tamba Ngasi? Keith non ne era sicuro. Quell’uomo camminava con la testa china in avanti, i gomiti sporgenti ad angolo acuto. Keith aveva studiato le fotografie di Tamba Ngasi, ma di fronte all’individuo vivo e reale… Non c’era tempo per le speculazioni. L’imbarcazione gli era quasi a fianco, la prua sollevava un’ondata gialla trasparente. Keith tirò a sé la corda, portando il bastone sotto la prua. Sollevò il palmo della mano destra, nel quale era stata arrotolata un’antenna direzionale. Allargò le dita, e un impulso andò a colpire il detonatore nella piccola losanga nera. Ci fu un’esplosione sorda e roboante, uno zampillo di spuma, scrosci di acqua marrone, grida stridule di sorpresa e paura. La prua dell’imbarcazione si abbassò nell’acqua, sbandò capricciosamente.

Keith diede uno strattone alla corda e riavvolse ciò che ne restava.

L’imbarcazione, già sovraccarica, stava per affondare. Virò verso riva, e si incagliò cinquanta iarde più a valle.

Keith guidò il tassì a marcia indietro fuori dai larici, proseguì per mezzo miglio di strada, e attese guardando con il binocolo.

Un gruppo di uomini e donne vestiti di bianco attraversò i folti di larici alla spicciolata, e poco dopo un uomo alto con un turbante darshba uscì a lunghi passi rabbiosi sulla strada. Keith mise a fuoco il binocolo e vide le fattezze che adesso erano le sue. Il portamento, la camminata, sembravano più spigolosi, più nervosi; doveva ricordarsi di duplicare quelle pose… E adesso, al lavoro. Tirò in avanti il cappuccio del mantello per nascondere il viso, inserì la marcia. Il tassì si avvicinò al capannello di gente ferma sul bordo della strada. Un uomo corpulento dalla carnagione olivastra in abiti europei balzò avanti e gli segnalò di fermarsi. Keith lo fissò fingendosi sorpreso e scrollò le spalle.

«Ho già un cliente; sto andando adesso a prenderlo.»

Tamba Ngasi gli si accostò a grandi passi. Spalancò la portiera. «Il cliente può aspettare. Io sono un funzionario governativo. Portami a Dasai.» L’Indù piccolo e corpulento fece il gesto di volere salire anche lui in tassì. Keith lo fermò. «Ho posto solo per uno.» Tamba Ngasi gettò la valigia sul sedile e saltò in auto. Keith ripartì, lasciando che il gruppo restasse a seguirlo sconsolato con lo sguardo.

«Un incidente senza senso,» si lamentò Tamba Ngasi stizzito. «Stavamo viaggiando tranquillamente; l’imbarcazione urta uno scoglio; sembra che ci sia un’esplosione, e affondiamo! Chi l’avrebbe mai immaginato? E a bordo c’ero io, un importante membro del governo! Perché ti fermi?»

«Devo badare all’altro mio cliente.» Keith deviò dalla strada, e prese un sentiero appena visibile che conduceva nella boscaglia.

«Non mi importa del tuo cliente, non voglio ritardi. Prosegui.»

«Devo anche caricare un barile di benzina, altrimenti rimarremo senza.»

«Benzina qui, in mezzo ai rovi?»

«Un nascondiglio conosciuto solo ai tassisti.» Keith si fermò, scese e aprì la portiera posteriore. «Tamba Ngasi, fatti avanti.»

Tamba Ngasi fissò il proprio volto sotto il cappuccio di Keith. Sbottò in un’appassionata bestemmia, e scattò verso lo stiletto che portava alla vita. Keith fece un movimento rapido in avanti, e lo colpì alla fronte con le unghie di rame e argento. L’elettricità esplose in una scarica mortale attraverso il cervello di Ngasi, che si accasciò vacillando su un fianco e cadde sulla strada.

Keith trascinò via il cadavere dal sentiero verso la boscaglia. Le gambe di Tamba Ngasi erano grosse e pesanti, sproporzionate rispetto al torace muscoloso. Questo era un particolare del quale Keith non era stato messo al corrente. Ma non importava; chi avrebbe mai saputo che le gambe di Keith erano lunghe e snelle?

Gli sciacalli e gli avvoltoi avrebbero presto eliminato il cadavere.

Keith trasferì il contenuto della borsa nella propria, cercò senza risultato una cintura porta denaro. Ritornò al tassì e guidò a ritroso fino all’alto albero della gomma. L’autista si era appisolato; Keith lo svegliò con un colpo di clacson. «Sbrigati, adesso, riportami a Dasai, devo essere a Fejo prima del calare della notte.»

In tutta l’Africa, antica, medievale, e moderna, non c’era mai stata una città come Fejo. Sorgeva su un promontorio brullo a nord di Tabacoundi Bay, dove vent’anni prima nemmeno i pescatori si degnavano di vivere. Fejo era una città audace, sorprendente nelle forme, nelle strutture e nei colori. Gli Africani determinati a esprimere l’unicità del loro retaggio avevano progettato la città, rifiutando recisamente le tradizioni architettoniche dell’Europa e dell’America, sia classiche che contemporanee.

La costruzione era stata finanziata grazie a un gigantesco prestito dell’URSS, e gli ingegneri sovietici avevano tradottogli schizzi dei ferventi studiosi di Lakhadi in spazio e solidità.

Fejo era perciò una città notevole. Certi critici europei la liquidavano come uno scenario teatrale; alcuni ne erano affascinati, altri respinti.

Nessuno negava che Fejo fosse irresistibilmente drammatica. «A confronto dell’impatto con Fejo, Brasilia sembra sterile, eclettica, affettata,» scriveva un critico inglese. «Fantasie di una mente malata, davanti alle quali stupirebbe lo stesso Gaudi,» sbottava uno Spagnolo. «Fejo è l’ardita provocazione del genio africano, e i suoi eccessi sono quelli della passione, piuttosto che dello stile,» dichiarava un Italiano. «Fejo,» scriveva un Francese, «è abominevole, sbalorditiva, involuta, pretenziosa, ignorante, oppressiva, e degna di nota solo per le forme torturate alle quali è stato destinato del buon materiale da costruzione.»

Fejo aveva il suo centro nella guglia di cinquanta piani dell’Istituto Africano, accanto al quale il Grande Parlamento sorgeva su arcate di rame, con finestre ovali e un tetto smaltato di azzurro come una bombetta a tesa larga. Sei alti guerrieri di basalto levigato, rappresentanti le sei principali tribù di Lakhadi, fronteggiavano la piazza; più oltre c’era l’Hotel des Tropiques, il più sontuoso di tutta l’Africa, e in grado di competere con qualunque altro al mondo. L’Hotel des Tropiques era forse l’edificio più convenzionale del complesso centrale, ma anche lì gli architetti avevano insistito su un puro stile africano. La vegetazione scendeva dal giardino pensile lungo i muri bianchi e azzurri; l’atrio era arredato in padank , tek ed ebano; colonne di vetrocemento per costruzioni si levavano da tappeti azzurri e argento e da passatoie rosso porpora a sostenere un soffitto di acciaio inossidabile e smalto nero.

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