Fejo era perciò una città notevole. Certi critici europei la liquidavano come uno scenario teatrale; alcuni ne erano affascinati, altri respinti.
Nessuno negava che Fejo fosse irresistibilmente drammatica. «A confronto dell’impatto con Fejo, Brasilia sembra sterile, eclettica, affettata,» scriveva un critico inglese. «Fantasie di una mente malata, davanti alle quali stupirebbe lo stesso Gaudi,» sbottava uno Spagnolo. «Fejo è l’ardita provocazione del genio africano, e i suoi eccessi sono quelli della passione, piuttosto che dello stile,» dichiarava un Italiano. «Fejo,» scriveva un Francese, «è abominevole, sbalorditiva, involuta, pretenziosa, ignorante, oppressiva, e degna di nota solo per le forme torturate alle quali è stato destinato del buon materiale da costruzione.»
Fejo aveva il suo centro nella guglia di cinquanta piani dell’Istituto Africano, accanto al quale il Grande Parlamento sorgeva su arcate di rame, con finestre ovali e un tetto smaltato di azzurro come una bombetta a tesa larga. Sei alti guerrieri di basalto levigato, rappresentanti le sei principali tribù di Lakhadi, fronteggiavano la piazza; più oltre c’era l’Hotel des Tropiques, il più sontuoso di tutta l’Africa, e in grado di competere con qualunque altro al mondo. L’Hotel des Tropiques era forse l’edificio più convenzionale del complesso centrale, ma anche lì gli architetti avevano insistito su un puro stile africano. La vegetazione scendeva dal giardino pensile lungo i muri bianchi e azzurri; l’atrio era arredato in padank, tek ed ebano; colonne di vetrocemento per costruzioni si levavano da tappeti azzurri e argento e da passatoie rosso porpora a sostenere un soffitto di acciaio inossidabile e smalto nero.
Dall’altra parte della piazza c’era il palazzo ufficiale, e dietro i primi tre dei dodici condomini progettati a uso degli alti ufficiali. Di tutte le costruzioni di Fejo, erano state quelle accolte più favorevolmente dai critici stranieri, probabilmente in virtù della loro semplicità. Ogni pavimento consisteva di un unico disco alto dodici piedi, mantenuto separato dal pavimento sopra e da quello sotto da quattro puntelli che li attraversavano. Ogni disco serviva anche come ponte di volo, e il ponte alla sommità veniva utilizzato come eliporto.
Sull’altro lato dell’Hotel des Tropiques si apriva un’altra piazza per soddisfare l’esigenza africana di un bazar. Lì c’erano bancarelle, venditori ambulanti e intrattenitori di ogni sorta che vendevano orologi da polso autocroni, potenziati e sincronizzati da un impulso a sessanta cicli avente origine in Greenwich, così come feticci, elisir, pozioni e talismani.
Per la piazza si muoveva un allegro e volubile miscuglio di gente: donne di colore con abiti di cotone, seta e mussolina stampati a magnifiche tinte, Maomettani in bianche djellabas, Tuareg e Uomini Azzurri della Mauritania, Cinesi in antiquati abiti neri, onnipresenti negozianti indù, talvolta un Russo arcigno e isolato dalla folla. Oltre questa piazza c’era un quartiere di spogli cubicoli a tre piani suddivisi in appartamenti. Le persone affacciate alle finestre sembravano irresolute e incerte, come se il cambiamento dal fango e dalla paglia al vetro, alle piastrelle e all’aria condizionata fosse troppo grande per poter essere racchiuso nello spazio di una vita.
A Fejo, alle cinque del pomeriggio, arrivò James Keith, con un biglietto di prima classe sul treno proveniente da Dasai. Dalla stazione attraversò il bazar fino all’Hotel des Tropiques, si diresse a grandi passi al banco, ignorò le numerose persone in attesa e batté il pugno sul tavolo per richiamare l’impiegato, un pallido Eurasiatico che si girò a guardarlo seccato.
«Svelto!» scattò Keith. «È forse conveniente che un Parlamentare aspetti i comodi di quelli come te! Conducimi alla mia suite.»
I modi dell’impiegato mutarono all’istante. «Il tuo nome, signore?»
«Sono Tamba Ngasi.»
«Non c’è la prenotazione, Compagno Ngasi. Non hai…»
Keith fissò l’uomo con uno sguardo offeso. «Io sono un Parlamentare dello Stato. Non ho bisogno di prenotazioni.»
«Ma tutte le suite sono occupate!»
«Butta fuori qualcuno, e alla svelta.»
«Si, Compagno Ngasi. Subito.»
Keith si ritrovò in una sontuosa serie di stanze arredate con legni intagliati, vetri verdi, folti tappeti. Non aveva mangiato da quel mattino presto; una leggera pressione su un bottone fece illuminare il menù del ristorante su uno schermo. Non c’era nessuna ragione per cui un capo tribù non potesse gradire la cucina europea, pensò Keith e ordinò di conseguenza. Mentre aspettava il pranzo ispezionò pareti, pavimento, tendaggi, soffitto, mobili. Le cellule spia potevano anche fare normalmente parte dell’arredamento a Fejo, dominata com’era dagli intrighi. Ma non erano visibili, Né Keith si aspettava che lo fossero. Le migliori apparecchiature moderne non erano certamente individuabili. Uscì sul terrazzo, spinse la lingua contro un dente, parlò in un sussurro per diversi minuti. Riportò l’interruttore nella sua posizione precedente, e il suo messaggio venne trasmesso in una scarica codificata di un centesimo di secondo indistinguibile dai disturbi di origine elettrostatica. A mille miglia sopra la sua testa era sospeso un satellite che ruotava assieme alla Terra, il satellite intercettò il segnale, lo amplificò e lo ritrasmise a Washington.
Keith attese, e i minuti passarono, tanti quanti erano necessari ad ascoltare il suo messaggio e formulare una risposta. Poi ci fu lo scatto quasi impercettibile che indicava l’arrivo del messaggio di ritorno, che gli si comunicò con la voce di Sebastiani attraverso la mandibola direttamente al nervo uditivo, senza il minimo suono ma con tutte le inflessioni caratteristiche di Sebastiani.
«Fino a questo momento va tutto bene,» disse Sebastiani. «Ma ho cattive notizie. Non cercare di metterti in contatto con Corty. A quanto pare è stato scoperto, e i Cinesi gli hanno fatto il lavaggio del cervello. Così devi arrangiarti da solo.»
Keith si lasciò sfuggire un grugnito di depressione, poi ritornò in salotto. Gli venne servito il pranzo; mangiò, poi aprì la valigia che aveva preso a Tamba Ngasi. Era simile alla sua, persino nel contenuto: biancheria pulita, articoli da toeletta, effetti personali, un raccoglitore di documenti. I documenti, stampati nei fioriti caratteri neo africani, non erano di particolare interesse: una lista elettorale, varie notifiche ufficiali. Keith trovò una direttiva che diceva: «Quando arriverai a Fejo prenderai alloggio in Rue Arsabatte 453, dove è stata allestita una suite conveniente. Quanto prima possibile informerai della tua presenza il Capoufficio del Parlamento.»
Keith sorrise debolmente. Avrebbe semplicemente dichiarato di preferire l’Hotel des Tropiques. E chi avrebbe discusso il capriccio del capo di una terra di confine, noto per il cattivo carattere?
Mentre riponeva il contenuto della valigia di Tamba Ngasi, Keith si accorse di qualcosa di molto particolare. Gli oggetti gli davano un’impressione… strana. Quella scatola del feticcio, per esempio, pesava mezza oncia di troppo. La mente di Keith sfrecciò attraverso tutta una rete di speculazioni. Quella penna a sfera un po’ ammaccata… La esaminò attentamente, l’allontanò da sé, premette il pulsante estensore. Uno scatto, un sibilo, uno spruzzo di gas nebuloso. Keith balzò indietro, si spostò dall’altra parte della stanza.
Era una pistola a gas in miniatura, progettata per soffiare del narcotico dentro e attraverso i pori della pelle. Una conferma ai suoi sospetti… e in quale strana direzione portavano!
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