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Poul Anderson: La luna dei cacciatori

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Poul Anderson La luna dei cacciatori

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Vincitore del premio Hugo per il miglior racconto in 1979.

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Poul Anderson

La luna dei cacciatori

Noi non percepiamo la realtà, la concepiamo, e supporre che sia altrimenti equivale ad invitare il verificarsi di sorprese catastrofiche. La tragica natura della storia deriva in gran parte da questo errore infinitamente ricorrente.

— Oskar Haemi, Betrachtungen über die menschliche Verlegenheit Considerazioni sulle difficoltà dell’uomo

*** Adesso entrambi i soli erano tramontati e le montagne occidentali erano divenute un’onda di oscurità, immota, come se il freddo dell’Oltre l’avesse sfiorata e congelata nel momento in cui si sollevava, una prima barriera marina sulla via di fuga verso la Promessa. Il cielo si stendeva purpureo al di sopra dell’onda, illuminato dalle prime stelle e da due piccole lune, dai contorni color ocra e con le gobbe crescenti argentate come la Promessa stessa. Verso est, il cielo rimaneva azzurro, e proprio in quella direzione, appena al di sopra dell’oceano, Ruii era illuminato quasi completamente, le sue strisce rese luminose là dove attraversavano il Suo bagliore carminio: sotto di Esso, il bagliore che ne derivava faceva tremolare le acque rendendo visibile il vento.

A’i’ach percepiva a sua volta quel vento, fresco e sussurrante: ciascun pelo del suo corpo, per quanto sottile, rispondeva al suo tocco, ma lui aveva bisogno di ben poca spinta per mantenere la direzione, di una quantità di energia appena bastante a dargli la sensazione della propria forza e del fatto di essere una cosa sola, nel viaggio e nella destinazione da raggiungere, con il suo Sciame. I globi degli altri lo circondavano con il loro pallido bagliore iridescente, nascondendo quasi completamente al suo sguardo il suolo su cui stavano viaggiando, perché A’i’ach era fra quelli più in alto da terra. Gli odori vitali dei suoi compagni soffocavano ogni altro odore portato dall’aria con i loro aromi dolci ed opprimenti, ed essi stavano cantando all’unisono, centinaia di voci in coro, in modo che i loro spiriti si potessero fondere insieme e divenire Spirito, un’anticipazione di ciò che li attendeva nel lontano ovest.

Quella notte, quando P’a avrebbe attraversato il volto di Ruii, sarebbe tornato il Tempo Lucente, e loro gioivano già per la meraviglia che li attendeva.

A’i’ach soltanto non cantava né concedeva più che ad una minima parte del suo io di perdersi nei sogni di festa e di amore, perché era fin troppo consapevole di ciò che trasportava: quella cosa che l’umano gli aveva assicurato sul dorso pesava pochissimo, ma ciò che essa stava insinuando nella sua anima era pesante ed aspro. L’intero Sciame era naturalmente consapevole dei pericoli di un attacco, e molti dei suoi membri erano muniti di armi… pietre da gettare, oppure rami appuntiti staccati da piante di ü… strette nei filamenti che sporgevano da sotto i loro globi. A’i’ach possedeva però un coltello d’acciaio, il prezzo che aveva chiesto per permettere agli umani di mettergli quel carico. Eppure, non era nella natura del Popolo di temere quel che gli sarebbe potuto piombare addosso dal futuro, ma A’i’ach era stranamente cambiato a causa di ciò che stava accadendo dentro di lui.

Non sapeva da dove gli fosse giunto quel sapere, sopravvenuto abbastanza lentamente perché non fosse sorpreso dalla sua presenza, ma, al posto della sorpresa, un senso di cupa determinazione si era frattanto congelato dentro di lui: da qualche parte su quelle colline e foreste, correva una Bestia che portava un oggetto simile al suo e che si manteneva inoltre in una sorta di spettrale contatto-Sciame con un umano. A’i’ach non poteva immaginare cosa sarebbe potuto derivare da questo, salvo che si sarebbe trattato di qualche tipo di guaio per il Popolo. Chiedere informazioni in merito avrebbe potuto rivelarsi poco saggio, e quindi A’i’ach era giunto a prendere una decisione che comprendeva essere aliena alla sua razza: sarebbe stato lui a porre termine a quella minaccia.

Dal momento che i suoi occhi erano collocati in basso nel corpo, non poteva vedere l’oggetto fissato sul dorso, né la luminosità che da esso saliva verso l’alto. I suoi compagni erano però in grado di vederlo, e lui stesso aveva assistito ad una dimostrazione prima di acconsentire a trasportarlo. Il raggio era debolissimo, visibile soltanto di notte, e, anche in quel caso, su uno sfondo scuro. A’i’ach avrebbe cercato d’individuare un bagliore fra le ombre sulla terra, e, presto o tardi, lo avrebbe trovato, dato che le probabilità a suo favore non erano scarse in quell’epoca, il Tempo Lucente, quando le Bestie cercavano di uccidere il Popolo, sapendo che questo si sarebbe radunato numeroso per festeggiare.

A’i’ach aveva richiesto il coltello come un oggetto curioso e possibilmente utilizzabile, con l’intenzione di custodirlo fra i rami di un albero e di fare qualche esperimento con esso quando ne avesse avuto voglia. Accadeva che una Persona impiegasse di tanto in tanto un oggetto reperito casualmente, come un ciottolo appuntito, per qualche fugace scopo, come per esempio quello di aprire la corolla di un fiore a cresta per far volare nell’aria i suoi deliziosi semi. Forse, con un coltello, avrebbe potuto lavorare il legno e ricavare attrezzi da tenere sempre a portata di mano.

Ora che disponeva di quella nuova forma d’introspezione, A’i’ach capiva a cosa era effettivamente destinata quella lama: con essa, avrebbe potuto colpire dall’alto fino ad uccidere una Bestia…, no, la Bestia.

A’i’ach stava cacciando. ***

Parecchie ore prima del tramonto, Hugh Brocket e sua moglie, Jannika Rezek, si stavano preparando al loro lavoro notturno quando era sopraggiunta, con notevole ritardo, Chrisoula Gryparis: una tempesta aveva bloccato a terra il suo velivolo ad Enrique e poi, procedendo perversamente verso ovest, l’aveva costretta ad effettuare una lunga deviazione durante il viaggio verso Hansonia. Non aveva neppure avvistato l’Oceano Circolare fino a quando aveva attraversato un abbondante migliaio di chilometri di terraferma, dopodiché aveva dovuto deviare a sud di un’eguale distanza, prima di raggiungere finalmente la grossa isola.

— Come sembra solitario Port Kato visto dall’aria — osservò. Per quanto accentato, il suo inglese… la lingua comune convenuta in quella particolare postazione… era fluente, e quello era uno dei motivi che l’avevano spinta a venire a vedere se c’era un posto disponibile.

— Perché lo è — replicò Jannika, con il suo diverso accento. — Ci sono una dozzina di scienziati, un numero doppio di assistenti e qualche membro del personale di supporto. Questo ti rende ancor più benvenuta.

— Cosa, vi sentite isolati? — chiese Chrisoula. — Ma se potete contattare qualsiasi luogo di Nearside dove ci sia un olocomunicatore!

— Già, oppure volare in una città per affari o per diporto o per qualsiasi altro motivo — ribatté Hugh. — Ma, non importa quanto un’immagine possa apparire e suonare stereo, essa rimane pur sempre un’immagine: non puoi certo portarla fuori a bere qualcosa dopo che il colloquio è finito, ti pare? E quanto ad una visita effettiva, ecco, ben presto ti ritrovi di nuovo qui fra le stesse vecchie facce. Gli avamposti finiscono presto per involversi socialmente, come scoprirai, se decidi di rimanere. Non che stia tentando di scoraggiarti — aggiunse in fretta, — Jan ha ragione: saremmo più che felici di avere qualche persona nuova fra di noi.

L’accento di Hugh rappresentava un prodotto della storia: l’uomo era di madrelingua inglese, ma era medeano da tre generazioni, il che significava che i suoi nonni avevano lasciato l’America Settentrionale tanto tempo prima che la lingua di laggiù era ormai mutata come ogni altra cosa.

A dire il vero, neppure Chrisoula era esattamente all’ordine del giorno, se si pensava che un raggio laser impiegava quasi cinquant’anni per andare dal Sole a Colchis e che la nave su cui lei aveva viaggiato, in animazione sospesa e senza invecchiare, aveva tenuto una velocità considerevolmente inferiore…

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