Barry Longyear - Mio caro nemico

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Due nemici, naufragati su un pianeta ostile, scopriranno come sia possibile diventare fratelli, anche oltre la morte.
Anche pubblicato come “Nemico mio adorato”.
Vincitore dei premi Hugo, Nebula e Locus per il miglior romanzo breve
in 1980.

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Mi inginocchiai vicino al Drac. — Sono qui, Jerry. Cosa c’è? Stai male?

— Davidge! — Il Drac roteò gli occhi senza vedere niente. Boccheggiò, poi la voce gli esplose in un grido.

— Jerry! Sono io. — Lo scossi per la spalla. — Sono io, Jerry! Davidge!

Jerry voltò la testa dalla mia parte, fece una smorfia, poi mi afferrò per il polso con la forza del dolore. — Davidge… Zammis… qualcosa non va!

— Cosa? Cosa posso fare?

Jerry gridò ancora, poi la testa gli ricadde sul letto. Il Drac si riprese e mi tirò la testa vicino alle labbra. — Davidge, devi giurare.

— Cosa devo giurare, Jerry?

— Zammis… su Draco. Di presentarti agli archivi di famiglia. Fallo.

— Cosa dici? Parli come se dovessi morire.

— Sto morendo, Davidge. Zammis è la duecentesima generazione… molto importante. Presenta mio figlio, Davidge! Giuralo!

Mi asciugai la faccia dal sudore con la mano libera. — Non morirai, Jerry. Forza!

— Basta! Guarda in faccia la realtà, Davidge! Sto morendo! Tu devi insegnare la genealogia Jeriba a Zammis… e il libro, il Talmen, gavey?

— Smettila! — Il panico mi stava addosso quasi come una presenza fisica. — Smettila di parlare così. Non morirai, Jerry. Forza, combatti, kizlode , bastardo…

Jerry urlò. Respirava debolmente, e stava perdendo conoscenza. — Davidge…

— Come? — Mi resi conto che singhiozzavo come un bambino.

— Davidge, devi aiutare Zammis a uscire.

— Cosa… come? Cosa diavolo stai dicendo?

Jerry voltò la faccia verso la parete. — Sollevami la giacca.

— Cosa?

— Sollevami la giacca, Davidge.

Sollevai la giacca di pelle, scoprendogli la pancia gonfia. La piega che aveva in mezzo era rosso vivo, e ne usciva un liquido chiaro. — Cosa… cosa devo fare?

Jerry respirò rapidamente, poi trattenne il fiato. — Aprila. Devi aprirla, Davidge!

— No!

— Fallo, o Zammis muore!

— E che mi importa del tuo maledetto bambino, Jerry. Cosa devo fare per salvare te?

— Aprila… — mormorò il Drac. — Prenditi cura del mio bambino, Irkmaan. Presenta Zammis agli archivi Jeriba. Giuramelo.

— Oh, Jerry…

Giuralo!

Annuii, mentre grosse lacrime calde mi rotolavano giù dalle guancie. — Lo giuro… — Jerry mi lasciò andare il polso e chiuse gli occhi. Mi chinai sul Drac, come instupidito. No. No, no!

Aprila! Devi aprirla, Davidge!

Allungai una mano e toccai la piega sulla pancia di Jerry. Sentii la vita, lì sotto, che lottava per uscire dalla prigione senza aria del ventre. La odiai; odiai quella dannata cosa più di quanto avessi mai odiato in vita mia. I suoi sforzi si fecero più deboli, poi cessarono.

Presenta Zammis agli archivi Jeriba. Giuramelo…

Lo giuro…

Allungai l’altra mano, infilai i pollici nella piega e tirai leggermente. Tirai con più forza, poi strappai la pancia di Jerry furiosamente. Dalla piega uscì un fiotto di liquido chiaro, che mi inzuppò la giacca. Potevo vedere la forma di Zammis, immersa nel liquido, immobile.

Vomitai. Quando non mi restò più niente nello stomaco, infilai le mani nella pancia e tirai su il bambino. Mi pulii la bocca sulla spalla e l’appoggiai su quella di Zammis, tenendogli aperte le labbra con le dita di una mano. Gli respirai nei polmoni più volte. Lui tossi. Poi pianse. Legai i due cordoni ombelicali con delle fibre, poi li tagliai. Zammis era libero dalla carne morta del suo genitore.

Sollevai la pietra sulla testa, poi la calai con tutte le mie forze. Frammenti di ghiaccio volarono da tutte le parti, mettendo a nudo la terra scura. Sollevai di nuovo la pietra, la calai, e liberai così un’altra pietra. La presi e la portai sul corpo mezzo sotterrato del Drac. — Il Drac — mormorai. Bene. Chiamalo Drac. Chiamalo faccia di rospo.

Il nemico. Chiamalo in qualunque modo, basta non risvegliare il dolore.

Guardai la pila di rocce che avevo raccolto, e decisi che erano abbastanza. Mi inginocchiai vicino alla fossa. Mentre ammucchiavo le pietre, incurante del nevischio che mi si gelava sulla giacca, dovetti lottare contro le lacrime. Battei le mani l’una contro l’altra, per riattivare la circolazione. La primavera stava arrivando, ma era ancora pericoloso restare troppo all’aperto. E ci avevo messo un bel po’ per scavare la tomba al Drac. Presi un’altra pietra e la misi a posto.

Mentre l’appoggiavo sulla coperta di pelle, mi accorsi che il Drac era già gelato. Sistemai in fretta le ultime pietre e mi alzai.

Il vento mi fece barcollare, e per poco non scivolai sul ghiaccio. Guardai verso il mare in tempesta, mi strinsi intorno al corpo la giacca, poi guardai la pila di rocce. Dovrei dire qualcosa. Non si sotterra uno, e poi si va a mangiare come se niente fosse. Dovrei dire qualcosa. Ma cosa? Non ero religioso, e neppure il Drac lo era stato. La sua filosofia, riguardo alla morte, si accordava con il mio ripudio informale delle delizie islamiche, del Valhalla pagano e del paradiso giudeo-cristiano. La morte è la morte; finis. Buoni per i vermi… Eppure, dovrei dire qualcosa.

Infilai una mano sotto la giacca e strinsi il cubo d’oro del Talman. Sentii gli spigoli attraverso i guanti; chiusi gli occhi e ripensai alle parole dei grandi filosofi Drac. Ma non c’era niente fra quello che avevano scritto di adatto a un momento come questo.

Il Talman era un libro sulla vita. Talma significa vita, e di questo si occupa la filosofia Drac. La morte non li interessa. La morte è un fatto: la fine della vita. Il Talman non aveva parole da suggerirmi. Il vento mi sferzava, facendomi rabbrividire. Già cominciavo a non sentirmi più le dita, e i piedi mi facevano male. Eppure dovevo dire qualcosa. Ma le sole parole a cui potevo pensare avrebbero aperto i cancelli del dolore, della consapevolezza che il Drac se n’era andato. Eppure… eppure dovrei dire qualcosa.

— Jerry, io… — Non avevo parole. Voltai le spalle alla tomba, con le lacrime che si mescolavano al nevischio.

Nel calore e nel silenzio della caverna mi sedetti sul materasso, appoggiando la schiena alla parete. Cercai di perdermi fra le luci e le ombre che il fuoco gettava sulla parete di fronte. Delle immagini si formavano, poi svanivano prima che la mia mente potesse vederci qualcosa. Quand’ero bambino avevo l’abitudine di guardare le nuvole, scoprendo in esse facce, castelli, animali, draghi e giganti. Era un mondo irreale, qualcosa che aggiungeva un po’ di meraviglia e di avventura nel mondo banale di un ragazzo della classe media. Tutto quello che riuscivo a vedere sulla parete della caverna erano immagini dell’inferno: fiamme che consumavano grottesche rappresentazioni di anime dannate. Mi misi a ridere, pensandoci. Si pensa all’inferno come a un luogo infuocato, con a capo un sadico ghignante vestito di rosso. Fyrine IV mi aveva insegnato questo: che l’inferno è solitudine, fame, e freddo senza fine.

Sentii un lamento, e scrutai nel buio, verso il piccolo materasso in fondo alla caverna, quello che Jerry aveva preparato per Zammis. Si lamentò ancora. Forse voleva qualcosa. Ebbi un momento di panico. Cosa mangia un neonato Drac? I Drac non sono mammiferi. Durante l’addestramento, tutto quello che ci avevano insegnato era come riconoscere i Drac… e come ammazzarli. Cominciavo ad avere paura. — Cosa diavolo uso per pannolini?

Un altro lamento. Mi misi in piedi, e andai al suo fianco. Mi inginocchiai. Da un fagotto costituito dalla vecchia tuta di Jerry, spuntavano due braccine tozze, con tre dita. Presi il fagotto, lo portai vicino al fuoco e mi sedetti su una roccia, tenendolo in grembo. Lo aprii cautamente. Gli occhi di Zammis brillavano, gialli sotto le sopracciglia gialle, pesanti di sonno. Dalla faccia, quasi senza naso, ai denti, al colore, Zammis era in tutto e per tutto una miniatura di Jerry, tranne che per il grasso. Zammis nuotava letteralmente nel grasso. Lo girai e vidi con sollievo che non si era sporcato.

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