Barry Longyear - Mio caro nemico
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- Название:Mio caro nemico
- Автор:
- Издательство:Mondadori
- Жанр:
- Год:1980
- Город:Milano
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Anche pubblicato come “Nemico mio adorato”.
Vincitore dei premi Hugo, Nebula e Locus per il miglior romanzo breve
in 1980.
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Lo guardai in faccia. — Vuoi qualcosa da mangiare?
— Guh.
Le mascelle erano pronte, e ne dedussi che i Drac mangiavano cibi solidi fin dal primo giorno di vita. Presi un pezzo di carne di serpente e le appoggiai alle labbra del bambino. Zammis girò la testa. — Su, mangia. Non troverai niente di meglio, qui.
Gli infilai di nuovo la carne fra le labbra. Zammis allungò un braccio e lo spinse via. Alzai le spalle. — Be’, si vede che non hai ancora fame abbastanza.
— Guh meh! — Agitò la testa, e con la manina mi strinse un dito, lamentandosi.
— Non vuoi mangiare, non devi essere pulito, e allora cosa vuoi? Kos va nu?
Zammis fece una smorfia e mi tirò il dito. Con l’altra mano annaspò verso il mio petto. Lo presi in braccio per sistemare la tuta, e lui mi afferrò con le mani la giacca e si tirò contro di me. Lo tenni stretto, e lui mi appoggiò la guancia sul petto. Dopo un attimo, si era addormentato. — Be’…che mi venga…
Prima della scomparsa di Jerry, non mi ero mai reso conto di quanto fossi vicino alla pazzia. La mia solitudine era come un cancro, che io nutrivo di odio: odio per il pianeta, col suo freddo che non finiva mai, i venti che non finivano mai, quell’isolamento che non finiva mai; odio Per quel bambino giallo, con il suo disperato bisogno di cure, di cibo, di un affetto che non gli potevo dare. E odiavo me stesso. Mi scoprivo a fare cose che mi spaventavano e mi disgustavano. Per rompere il muro soffocante della solitudine, parlavo, gridavo, cantavo; lanciavo maledizioni e frasi senza senso, o grugniti.
Aveva gli occhi aperti. Agitò le braccia e fece dei versi. Presi una grossa pietra, gli andai vicino e la tenni sospesa su di lui. — Se la lasciassi cadere, dove andresti a finire tu? — Mi sentii in gola una risata, e gettai via la pietra. — E perché dovrei sporcare la caverna? Fuori. Basta che ti metta fuori un minuto e moriresti. Hai capito? Moriresti!
Lui agitò le mani nell’aria, chiuse gli occhi e scoppiò a piangere. — Perché non mangi? Perché non fai la cacca? Sai solo piangere? — Lui si mise a piangere ancora più forte. — Bah! Dovrei prendere quella pietra e farla finita. Ecco cosa dovrei fare… — Mi interruppi, con un senso di repulsione. Andai al mio materasso, presi guanti e cappello, e mi preparai a uscire.
Sentii il vento ancora prima di arrivare all’entrata della caverna. Una volta fuori, mi fermai e guardai il cielo e il mare: un panorama di neri, di bianchi, di grigi e di grigi. Una folata di vento mi fece barcollare e mi rigettò verso l’ingresso. Ripresi l’equilibrio, andai fino all’orlo del dirupo e scossi il pugno verso il mare. — Avanti, soffia! Soffia, kizlode figlio di puttana! Non mi hai ancora ammazzato!
Serrai gli occhi, arrossati dal vento, poi li riaprii e guardai in basso. C’erano quaranta metri fino alla cornice inferiore, ma se prendevo la rincorsa e saltavo, poteva superarla. Scossi la testa, rivolto al mare. — Non ho intenzione di farti un favore! Se mi vuoi morto, dovrai farlo con le tue mani.
Mi guardai alle spalle, sopra la caverna. Il cielo si stava oscurando, e fra poche ore la notte sarebbe calata. Presi il sentiero che conduceva ai bosco.
Mi accucciai vicino alla tomba del Drac e studiai le rocce che avevo accumulato, già fuse assieme da uno strato di ghiaccio. — Jerry, cosa devo fare?
Il Drac sedeva vicino al fuoco. Eravamo tutt’e due intenti a cucire.
— Sai, Jerry — dissi sollevando il Talman. — Queste robe le ho già sentite. Mi aspettavo qualcosa di nuovo.
Il Drac mise giù il lavoro e mi osservò per un momento. Poi scosse la testa e riprese a cucire. — Non sei una creatura molto profonda, Davidge.
— Cosa vorresti dire?
Jerry sollevò una mano. — Davidge, qui fuori c’è un universo, un universo di vita, di oggetti, di avvenimenti. Ci sono differenze, ma è tutto contenuto nello stesso universo, e tutti noi dobbiamo obbedire alle stesse leggi universali. Ci avevi mai pensato?
— No.
— È appunto questo che volevo dire, Davidge. Non sei molto profondo.
Sbuffai. — Ti ho detto che le ho già sentite queste cose. Questo vuol dire che gli umani sono profondi quanto i Drac.
Jerry rise. — Insisti sempre nell’intendere le mie affermazioni in maniera razzista. Quello che ho detto si applica a te, non alla razza umana…
Sputai sul terreno gelato. — Voi Drac credete di essere molto furbi. — Il vento rinforzò, e sentii il sapore della salsedine. Stava arrivando una tempesta. Il cielo aveva assunto quella curiosa sfumatura che mi ricordava il blu della mezzanotte, piuttosto che il nero. Un pezzettino di ghiaccio mi si infilò sotto il colletto.
— Che c’è di male se sono quello che sono? Non c’è mica bisogno che tutti quanti nell’universo facciano i filosofi, faccia di rospo! — C’erano milioni, miliardi di esseri come me. Forse di più. — Che differenza fa se medito sull’esistenza oppure no? Esisto, e tanto mi basta.
— Davidge, tu non conosci neppure i tuoi ascendenti al di là dei tuoi genitori, e adesso dici che ti rifiuti di conoscere quello che puoi sull’universo. Come potrai sapere qual è il tuo posto nell’esistenza, Davidge? Dove sei? Chi sei?
Scossi la testa, guardando la tomba, poi mi voltai verso il mare. Fra un’ora o anche meno, sarebbe stato troppo buio per vedere le creste delle onde. — Io sono io, ecco chi sono. — Ma ero io quello che aveva minacciato Zammis con la pietra, un bambino indifeso? Mi sentii gelare le viscere. Era come se la solitudine avesse messo artigli e zanne, e stesse dilaniando le poche parti ancora sane della mia mente. Voltai le spalle alla tomba, chiusi gli occhi, poi li riaprii. Sono un pilota di caccia, Jerry. Non è abbastanza?
Questo è quello che fai, Davidge; non quello che sei.
Mi inginocchiai vicino alla tomba e strinsi fra le mani le pietre coperte di ghiaccio. — Sta’ zitto, Drac! Sei morto! — Mi fermai, rendendomi conto che le parole che avevo sentito erano tratte dal Talman, e adattate alla mia situazione. Mi accasciai sulle rocce, poi, sotto la sferza del vento, mi rialzai. — Jerry, Zammis non vuol mangiare. Sono tre giorni ormai. Cosa devo fare? Perché non mi hai detto niente sui neonati Drac prima di… — Mi coprii la faccia con le mani. — Calma, ragazzo. Fatti forza, e tutto andrà bene. — Il vento mi soffiava contro la schiena. Abbassai le mani e tornai alla caverna. Alla fine lo scoprii all’imboccatura della caverna, che puntava dritto di fuori. Ne avevo abbastanza. Fabbricai una bardatura di pelli di serpente, con un guinzaglio dello stesso materiale che legai a una sporgenza della roccia. Zammis continuava a ficcarsi dappertutto, ma almeno sapevo dove trovarlo.
Quattro giorni dopo aver imparato a camminare, volle mangiare. I piccoli Drac sono probabilmente i bambini più discreti e comodi dell’universo. Vivono del proprio grasso per circa tre o quattro settimane terrestri, e per tutto quel tempo non sporcano. Dopo che hanno imparato a camminare, e possono quindi arrivare a un posto adatto ai loro bisogni, allora vogliono il cibo. Mostrai una volta a Zammis la cassettina che avevo preparato per lui, e non dovetti più farlo. Dopo cinque o sei lezioni, Zammis era capace di pulirsi da solo. Osservando il piccolo Drac che cresceva, cominciai a capire quei piloti della mia squadra che mostravano a tutti quelli che capitavano loro a tiro innumerevoli fotografie di brutti bambini, accompagnate ognuna da una spiegazione di mezz’ora. Prima che il ghiaccio si sciogliesse, Zammis aveva cominciato a parlare. Gli insegnai a chiamarmi zio.
In mancanza di un termine migliore, chiamai primavera la stagione in cui il ghiaccio si scioglieva. Ma ci sarebbe voluto ancora molto tempo prima che gli alberi mostrassero del verde, e che i serpenti si avventurassero fuori dalle loro tane. Il cielo continuava a essere coperto da una cortina di nubi scure e minacciose, ogni tanto nevicava, e la neve di notte si trasformava in ghiaccio. Ma il giorno dopo, il ghiaccio si scioglieva, e il calore dell’aria penetrava per un altro millimetro nel suolo.
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