Spider Robinson - Con qualunque altro nome

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Con qualunque altro nome: краткое содержание, описание и аннотация

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Vincitore del premio Hugo per il miglior romanzo breve
in 1977.

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Fetori immondi annientarono la mia lucidità, odori atroci aggredirono la mia ragione. Ero dilaniato e bombardato e sopraffatto da un lezzo abominevole. L’universo era marcio, e il mondo che vedevo era remoto e irreale. I miei occhi vedevano il campus, ma non mi dicevano nulla del puzzo di putrefazione che vi regnava. Vedevano il cielo, ma non parlavano degli strati maleodoranti di corruzione indescrivibile che lo formavano. Anche tenendo conto dell’effetto serra, era molto peggio di quanto avrebbe dovuto essere dopo vent’anni, come diceva la leggenda. Sentivo odore di escrementi. Sentivo odore di metallo. Sentivo l’odore del più grande carnaio del mondo, con una popolazione di sette milioni d’abitanti, e mi contorcevo sul cemento. I ricordi infantili dell’Esodo esplosero nella mia mente e mi ridussero a un bimbetto urlante. Non potevo sopportarlo, era intollerabile: come avevo potuto attraversare per tutto il giorno, arrogante e ignaro, quel fetido inferno?

E a quel pensiero ricordai perché ero venuto lì, e capii che non potevo raggiungere Izzy nel buio pacifico e fragrante. Non potevo mollare… dovevo uccidere Carlson prima di abbandonarmi alla tenebra. Il coraggio affluì, Dio sa da dove, alimentato dall’odio nero e dalla terribile paura di deludere la mia gente, di deludere mio padre. Mi alzai e aspirai profondamente, attraverso il naso.

Il mondo d’incubo si mise a fuoco e il tempo si arrestò.

C’erano sei Musky che volteggiavano davanti a Butler Hall e cercavano di piegare le brezze alla loro volontà.

Io avevo tre proiettili termici e tre bombe a mano.

Uno dei Musky si fermò e poi virò verso di me. Sparai dall’altezza del fianco, e il Musky divampò e sparì.

Un secondo si inserì in una corrente e arrivò come un treno rapido. Il panico mi dilaniò la mente; risi, presi la mira e il Musky diventò incandescente.

Poi ne arrivarono due insieme, come palloncini al rallentatore. Estrapolai le loro rotte, sganciai due bombe e le armai con i pollici, contai fino a quattro e le scagliai insieme come mi aveva insegnato Collaci, mirando un po’ al di qua del bersaglio. Le bombe toccarono terra in quel punto e rimbalzarono, ognuna verso un Musky. Ma una scoppiò prima dell’altra, uccidendo un Musky ma spostando l’altro, al sicuro. Quello mi passò sibilando accanto all’orecchio mentre mi buttavo a lato.

Tre Musky. Un proiettile, una bomba a mano.

Quello che si era salvato veleggiò intorno alla gru in un ampio arco elegante e si avvicinò veloce, a bassa quota, sollevandosi per investirmi in faccia mentre uno dei suoi fratelli mi attaccava da sinistra. Imprecando, bruciai quest’ultimo e mi buttai a ritroso attraverso un tratto di benzina che fiammeggiava. Il Musky non riuscì a frenarsi in tempo, schizzò improvvisamente verso il cielo ed esplose spettacolosamente. Andai a sbattere con violenza contro un mucchio di grossi tubi e sentii che le mie costole si incrinavano.

Un Musky. Una bomba a mano.

Mentre mi rialzavo barcollando e battendo le mani sul maglione bruciacchiato, Carlson uscì di nuovo da Butler Hall, con uno strano elmetto sui lunghi capelli bianchi.

Non mi curai più dell’ultimo Musky rimasto. Quasi distrattamente lanciai l’ultima bomba a mano nella sua direzione per tenerlo occupato, ma sapevo di avere tutto il tempo che volevo. La morte imminente era solo una questione secondaria. Mi lanciai e rotolai, mi rialzai con il fucile nelle mani e mirai alla O in mezzo alla barba bianca di Carlson. Lo vidi, indistintamente, inserire un cavo del casco nella strana console, ma non aveva importanza; non aveva nessuna importanza. Strinsi l’indice sul grilletto.

E poi qualcosa mi colpì al collo dietro l’orecchio, il mio indice scattò, e la tenebra che aveva atteso pazientemente per tanto tempo mi piombò addosso e cancellò il dolore e l’odio e la stanchezza e… oh, Dio… il lezzo spaventoso.

IV

Da LA CREAZIONE DI FRESH START, di Jacob Stone, Ph.D., versione autorizzata, Fresh Start Press, 2001

Sebbene Fresh Start crescesse lentamente e in modo apparentemente casuale via via che il personale e i materiali diventavano disponibili, il suo sviluppo seguì le direttrici fondamentali di un piano concepito meno di un anno dopo l’Esodo. Naturalmente, non avevo la preparazione e l’esperienza necessarie per visualizzare i dettagli del mio sogno, in quella fase iniziale… ma il modello fondamentale era insito nella forma del paesaggio e nella natura del mondo nuovo che Carlson aveva creato per tutti noi.

Cinque anni prima dell’Esodo un uomo che si chiamava Gallipolis aveva acquisito, con sistemi irregolari, il diritto di proprietà di una zona boscosa a nord-ovest di New York City. Era un pezzo di terra di un’ottantina di ettari, dalla forma estremamente bizzarra. Vista dall’alto doveva sembrare un enorme paio di occhiali da sole verdi: due valli soffocate dalla vegetazione, separate fisicamente da una grande estrusione perpendicolare della catena montuosa a est, fin quasi alle pendici occidentali, e la valle sud e quella nord erano unite da uno stretto canale. Il «naso» perpendicolare tra le «lenti» delle valli era un alto dosso roccioso, che digradava ripido da entrambi i lati e formava una divisione naturale perfetta. Il terreno scendeva dolcemente, ai piedi di questa cresta, in entrambe le direzioni, e le strade sterrate lasciate dai boscaioli tracciavano grandi cerchi in tutte e due le valli. Era terra inadatta all’agricoltura, e troppo lontana da tutto per crearvi un quartiere suburbano… era ciò che gli agenti immobiliari chiamavano «un investimento per il futuro».

Gallipolis era un greco pazzo. Nella letteratura i greci pazzi sono invariabilmente olivastri, ignoranti, poveri e ubriachi. Gallipolis era florido, colto, moderatamente ricco e astemio. Guardò le valli, sorrise e decise di mandare al diavolo il futuro. Fece costruire una strada attraverso la foresta nord, in riva al lago, fino a raggiungere un tratto solitario dell’autostrada statale che confluiva nella vicina interstatale. Portò le ruspe lungo quella strada e fece disboscare due ettari interspaziati a ovest della strada dei boscaioli nella valle settentrionale, e tre ettari sulla riva del lago, per se stesso. In quei posti costruì case grandi e comodissime, capolavori di architettura che combinavano un aspetto volutamente rozzo con tutte le comodità moderne immaginabili. Portò l’acqua dalle sorgenti più in alto sui pendii del Naso (così aveva chiamato il dosso centrale). Costruì casette lungo la spiaggia. Intendeva affittare le case ai ricchi, per il weekend o per l’estate, a prezzi esorbitanti, e usare il ricavato per sviluppare altri tre posti simili nelle due valli. Contava di realizzare due o tre dozzine di case per poi ritirarsi dagli affari, ma le uniche due cose che riuscì a fare furono ridursi al verde prima di affittare una casa, e morire.

Un nipote ereditò la terra e un’altissima tassa di successione. Era un mio studente, e sapeva che io cercavo un rifugio per il weekend; venne a parlarmi. Sebbene quel posto fosse assurdamente lontano da New York, un sabato ci andai con lui, guardai la casa più vicina al lago, gli offrii un quarto della somma che chiedeva, e mi accordai su due piedi. Era un posto bellissimo. Mia moglie e io ci affezionammo, e non ci lasciammo mai sfuggire l’occasione di andare a passarci i weekend. Presto arrivarono anche i vicini; ma li vedevamo di rado, se non sul lago, qualche volta. Eravamo tutti andati lì in cerca di solitudine, e il lago era grande… e nessuno di noi era molto socievole.

Fu appunto verso questo rifugio nei boschi che io e la mia famiglia ci dirigemmo nelle terribili ore dell’Esodo, e ci arrivammo solo per grazia di Dio. Nessuno degli altri inquilini ci arrivò, allora o in seguito, e perciò devo pensare che fossero morti. Sarwar Krishnamurti, un chimico della Columbia che qualche volta era stato ospite di Stone Manor per il weekend, si ricordò di quel posto nel momento del bisogno e comparve quasi subito, con la sua famiglia. Pochi giorni dopo fu seguito da George Dalhousie, un mio amico della Facoltà d’Ingegneria, al quale una volta avevo spiegato come si arrivava fin lì.

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