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A. Chandler: L'uccisore di giganti

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A. Chandler L'uccisore di giganti

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Così, i lancieri di Shrick, portatisi in prima fila, ebbero facile gioco nell’inchiodare uno ad uno i soldati di Sterret alle pareti della gallerìa, trafiggendoli con le sottili, micidiali aste. Non tutti rimasero uccisi sul colpo, qualcuno, più sfortunato, si divincolò a lungo, uggiolando, cercando di strappar via dalle carni martoriate le lance, ma senza riuscirci.

Fra questi c’era lo stesso Sterret.

Shrick avanzò, con la lancia in mano, per dargli il colpo di grazia. Il vecchio capo lo fissò con gli occhi fuori della testa, poi: «Il glabro di Weena!» gridò.

Per colmo d’ironia fu la sua stessa lancia, quella che, a turno, era appartenuta a Weena e a Tekka, a tagliargli la gola.

Adesso che era Signore dell’Esterno, Shrick aveva tutto il tempo per riflettere e sognare. Sempre di più la sua mene andava alla profezia di Tre-Occhi. Non dubitò mai, neppure per un attimo, d’esser lui l’Uccisore-di-Giganti, anche se scartava dalla sua mente la visione della Fine, giudicandola l’allucinazione d’una femmina mezzo impazzita.

Così, mandò le sue spie all’Interno, a osservare i giganti nei loro misteriosi andirivieni, facendo ogni sforzo per scoprire un qualche schema nel loro incomprensibile comportamento. Molto spesso lui stesso accompagnava queste spie — e cupidamente osservò la grande ricchezza di cose belle e risplendenti di cui disponevano i giganti. Più d’ogni altra cosa, bramava un’altra di quelle piccole fiammelle calde, poiché la sua aveva cessato di funzionare, e tutti i goffi e ignoranti armeggii suoi e di Wesel non erano riusciti a produrre più di qualche fioca scintilla quasi del tutto priva di calore.

Ora, sembrava che anche i giganti fossero consci del brulicare di vita che li circondava. Le trappole erano chiaramente cresciute di numero e ingegnosità. E il cibo-che-uccide era comparso in una nuova e terrificante guisa. Non soltanto morivano quelli che ne avevano mangiato, ma anche i loro compagni e… si, tutti quelli che erano venuti a contatto con loro. Tutto ciò sapeva di stregoneria, ma Shrick aveva ormai imparato ad associare cause ed effetti. Fece in modo che i colpiti trasportassero quelli già morti in una piccola galleria. Uno o due cercarono di ribellarsi — ma i lancieri subito li circondarono, e li convinsero a obbedire puntando le loro leggere e micidiali lance. Quelli che tentavano di scavalcare il cordone di guardie venivano trafitti più volte, impedendo così che potessero toccare con le loro mani impure e contaminare qualcun altro del Popolo non colpito dal male.

Grosse-Orecchie si trovò tra i sofferenti. Non fece nessun tentativo di ribellarsi al suo destino. Prima di entrare nella galleria che sarebbe stata la sua tomba, si voltò e guardò il suo capo. Shrick fece per richiamarlo al suo fianco — anche se ben sapeva che la vita del suo amico non poteva esser salvata e che, accettando che gli si avvicinasse troppo, avrebbe seguito il suo stesso destino…

Ma Wesel vigilava al suo fianco.

Fece un cenno ai lancieri scelti, e due intere mani di dardi trafissero l’afflitto Grosse-Orecchie.

«È stato meno crudele in questo modo», mentì Wesel.

Ma, in qualche modo, l’ultima occhiata del suo più fedele sostenitore aveva ricordato a Shrick la sua antica compagna, Senza-Coda. Pieno di malinconia, ordinò al suo Popolo di chiudere ermeticamente quella galleria. Furono portate grandi strisce di materiale spugnoso, che furono pressate dentro l’imboccatura finché la riempirono del tutto. Le grida di quelli ancora vivi, là dentro, si fecero sempre più fioche. Poi seguì il silenzio. Shrick ordinò che si ponessero guardie in tutti quei punti dove si potesse temere che i prigionieri condannati riuscissero ad aprirsi una via di fuga. Shrick fece ritorno alla propria caverna. Wesel, che gli leggeva dentro, lo lasciò andare: non si preoccupò, come avrebbe fatto un’altra femmina priva del suo dono. Sapeva che presto Shrick l’avrebbe voluta di nuovo.

Wesel da tempo era convinta che, se ne avesse avuto l’occasione, sarebbe riuscita a penetrare nella mente dei giganti proprio come poteva fare con quelli del Popolo. E se avesse potuto farlo… chi mai poteva anche soltanto immaginare quali e quanti benefici ne avrebbe ricavato?

Sentiva, più di quanto volesse ammetterlo, la mancanza di Shrick, ancora inavvicinabile e immerso in un profondo dolore per la morte del suo amico. L’ultimo dei prigionieri catturato nell’ultima guerra era stato ucciso, in modo assai ingegnoso, ormai da molti nutrimenti. Malgrado Wesel non avesse alcun modo di misurare il passaggio del tempo, questo cominciava a gravarle addosso.

Così, accompagnata da due delle sue guardie personali, vagava per quelle gallerie che correvano subito all’interno della Barriera. Sbirciò da uno spioncino dopo l’altro, contemplando con una meraviglia che nessuna consuetudine avrebbe potuto smorzare la ricca e varia vita che si svolgeva nell’Interno.

Alla fine, trovò quello che stava cercando: un gigante solo e addormentato. La sua lunga esperienza con la gente del Popolo le aveva insegnato che era più facile leggere i pensieri più riposti in una mente addormentata.

Per un battito di cuore, esitò. Poi: «Quattro-Braccia, Testa-Piccola, aspettatemi qui. State ferme e osservate».

Testa-Piccola assentì con un grugnito, ma Quattro-Braccia si mostrò dubbiosa. «Signora Wesel», osò obbiettare, «e se il gigante dovesse svegliarsi? Cosa mai…?»

«Cosa mai succederebbe se tu dovessi tornare dal Signore dell’Esterno senza di me? Allora lui, senza alcun dubbio, ti toglierebbe la pelliccia. Quella che ha adesso è vecchia, e il pelo comincia a cadere. Fai come ti dico, dunque».

In questo punto della Barriera c’era una porta che veniva usata raramente. Era, però, aperta, e Wesel vi s’infilò. Con la facilità che tutta la gente del Popolo stava acquisendo, grazie alle loro sempre più frequenti missioni nell’Interno, Wesel si spinse galleggiando verso l’alto, verso il gigante addormentato. C’erano dai legacci che lo tenevano stretto a una sorta di telaio, e Wesel si chiese se non fosse stato imprigionato, per qualche colpa specifica, da quelli della sua stessa razza. Presto l’avrebbe saputo.

E poi, un oggetto luccicante attirò il suo sguardo. Era una delle piccole fiamme calde, la custodia lucida apparve agli occhi bramosi di Wesel come la cosa più bella del mondo. Subito prese la sua decisione. Avrebbe potuto impadronirsi subito di quell’affascinante oggetto, consegnarlo alle sue due guardie, e poi tornar qui a compiere quello che era stato il suo obbiettivo originario.

Ma, nella sua frenesia, non si avvide che l’oggetto era sospeso in mezzo a sottili fili metallici intrecciati fra loro… o anche se lo vide, non gliene importò. E quando le sue mani afferrarono l’esca, qualcosa, non molto lontano, cominciò a produrre un suono acuto, una pulsazione metallica che aveva un che di musicale. Il gigante si mosse… e si svegliò. Quelli che Wesel aveva preso per legacci caddero dal suo corpo, lasciandolo immediatamente libero. Colta da un panico cieco, si voltò per fuggire nel suo mondo. Ma, in qualche modo, altri fili metallici erano caduti giù, e lei era prigioniera.

Cominciò a gridare.

Cosa stupefacente, Quattro-Braccia e Testa-Piccola accorsero in suo aiuto. Sarebbe stato bello e glorificante poter mettere agli atti l’affermazione che erano state spinte dalla grande devozione verso la loro padrona… ma in realtà Quattro-Braccia aveva subito capito che la sua stessa vita era perduta. E aveva visto troppi, di quelli che avevano scontentato Shrick o Wesel, venir scuoiati vivi. Testa-Piccola seguì ciecamente la sua compagna. Non stava a lei chiedersi le ragioni…

Vibrando selvaggiamente le loro lance, assalirono il gigante. Lui scoppiò a ridere — o almeno, Wesel interpretò come una risata il rombo profondo che uscì dalla sua gola. Agguantò per prima Quattro-Braccia. Con una mano le strinse il corpo, con l’altra la testa. E la torse. E quella fu la fine di Quattro-Braccia.

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