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A. Chandler: L'uccisore di giganti

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A. Chandler L'uccisore di giganti

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A. Bertram Chandler

L’uccisore di giganti

Shrick sarebbe morto prima che i suoi occhi di bambino si fossero aperti su questo mondo. Shrick sarebbe morto, ma Weena, sua madre, aveva deciso che lui, unico fra tutti i suoi figli, sarebbe vissuto. Aveva generato tre altre volte, prima di questa, dal suo accoppiamento con Skreer, e in ogni occasione il vecchio, grigio Sterret, giudice dei neonati, aveva condannato i suoi figli come Diversi.

Weena non aveva nulla da obiettare alla legge, quando non toccava lei o i suoi. Lei, come qualsiasi altro della tribù, godeva con entusiasmo le feste con la carne fresca e gustosa, che seguivano il macello rituale dei Diversi. Ma quando venivano sacrificati i frutti del suo grembo, la cosa cambiava aspetto. C’era silenzio, nella caverna, mentre Weena aspettava la venuta del suo signore. Silenzio, salvo per il suo respiro, e l’occasionale, lamentevole gnaulio del nuovo nato. E perfino quei suoni venivano smorzati dalle pareti e dal soffitto morbidi come spugne.

Percepì l’avvicinarsi di Skreer molto prima della sua vera e propria comparsa. Previde la sua prima domanda, e quando Skreer entrò nella caverna, gli annunciò, con calma: «Uno, maschio».

«Un maschio?» Skreer irradiò la sua approvazione. Poi, Weena sentì che il suo umore cambiava, diventando interrogativo, dubbioso: «È un… lui…?»

«Sì».

Skreer raccolse tra le sue braccia quell’essere minuscolo e caldo. Non c’era luce ma lui, come tutti quelli della sua razza, era abituato al buio. Le sue dita gli dissero tutto ciò che voleva sapere. Il piccolo era glabro. Le gambe erano troppo dritte. E — questa la cosa peggiore — la testa era una grande cupola rigonfia.

«Skreer!» La voce di Weena era ansiosa. «Pensi…?»

«Non c’è alcun dubbio. Sterret lo condannerà… è un Diverso».

«Ma…»

«Non c’è speranza». Weena sentì il suo compagno rabbrividire, il lieve, serico frusciare della sua pelliccia. «La sua testa… è come quella dei giganti!»

La madre sospirò. Era duro, ma conosceva la legge. Eppure… Questa era la quarta volta che partoriva, e forse non avrebbe mai provato cosa volesse dire guardare e aspettare con un misto d’orgoglio e di terrore i suoi figli che si avventuravano fuori con gli altri giovani maschi per depredare il territorio dei giganti, portando indietro il bottino dalla grande Caverna-del-Cibo, dal Luogo-delle-Cose-Verdi-che-Crescono, o perfino preziosi frammenti di metallo luccicante dal Luogo-della-Vita-che-Non-è-Vita.

Si aggrappò a una debole speranza.

«La sua testa è come quella d’un gigante? Non potrebbe essere, non credi, che i giganti siano dei Diversi? L’ho sentito dire».

«E se anche così fosse?»

«Soltanto questo. Forse crescerà per diventare un gigante. Forse combatterà contro gli altri giganti per noi, per la sua gente. Forse…».

«Forse Sterret lo lascerà vivere, vuoi dire». Skreer produsse quel suono breve e spiacevole che fra la sua gente passava per una risata. «No, Weena. Deve morire. Ed e passato molto tempo dall’ultimo banchetto…»

«Ma…»

«Basta. Oppure vuoi diventare anche tu carne per la tribù? Potrei anche desiderare una nuova compagna, che mi dia figli sani e robusti, non mostri!»

Il Luogo-d’Incontro era quasi deserto quando Skreer e Weena, lei con Shrick rannicchiato strettamente fra le sue braccia, entrarono. Due altre coppie si trovavano là, ognuna con i propri figli. Una delle madri reggeva due bambini, ognuno dei quali pareva normale. L’altra ne aveva tre, il suo compagno ne reggeva uno.

Weena la riconobbe come Teeza e le rivolse un mesto sorriso di comprensione quando vide che il bambino portato dal suo compagno sarebbe stato certamente condannato da Sterret, quando questi avesse scelto di farsi vivo, giacché, era forse ancor più ripugnante del suo Diverso, avendo due mani all’estremità di ogni braccio.

Skreer si avvicinò a uno degli altri maschi, lui che non reggeva nessun bambino.

«Da quanto tempo aspettate?» chiese.

«Molti battiti di cuore. Noi…»

La guardia piazzata alla porta dalla quale giungeva la luce dell’interno sibilò un ammonimento: «Silenzio! Sta arrivando un gigante!»

Le madri strinsero a sé i propri figli ancora più forte, la pelliccia si drizzò a entrambe per il terrore superstizioso. Sapevano che, se avessero conservato un perfetto silenzio, non ci sarebbe stato nessun pericolo, e che anche se si fossero traditi con qualche leggero rumore, non vi sarebbe stato un pericolo immediato. Non erano soltanto le dimensioni a render pericolosi i giganti, ma anche i poteri sovrannaturali che, si sapeva, possedevano. Il cibo-che-uccide aveva sterminato parecchi membri incauti della tribù, e c’erano inoltre i loro congegni d’un’astuzia diabolica che schiacciavano e maciullavano chiunque, del Popolo, fosse così poco saggio e avido da sforzarsi di acchiappare i gustosi bocconi lasciati esposti su una specie di piccola piattaforma. Malgrado vi fossero quelli i quali sostenevano che in quest’ultimo caso il rischio valeva ben la pena, poiché i grani gialli portati via dai molti sacchi della Caverna — del — Cibo erano, sì, nutrienti, ma quanto di più monotono si poteva immaginare.

«Il gigante è passato!»

Prima che la gente radunata li, nel Luogo-d’Incontro, avesse potuto riprendere il discorso, Sterret sbucò fuori dall’ingresso della sua caverna. Reggeva con la destra il bastone del suo ufficio, una bacchetta dritta fatta di quel materiale duro ed elastico che divideva il territorio del Popolo da quello dei Giganti. Aveva una punta acuminata.

Era vecchio. Era Sterret.

Quelli, fra loro, che erano nonni, avevano udito i loro nonni parlare di lui. Per generazioni era sopravvissuto agli attacchi dei giovani maschi gelosi delle sue prerogative di capo, e alle aggressioni, peraltro più rare, dei genitori scontenti dei suoi verdetti come Giudice dei Nati. In questi casi isolati, tuttavia, non aveva niente da temere, poiché la stessa tribù si era sempre sollevata tutta insieme per fare a pezzi i colpevoli.

Dietro a Sterret veniva la sua guardia personale e poi, rovesciandosi fuori dagli ingressi di molte altre caverne, la maggioranza della tribù. Non c’era stato nessun bisogno di convocarli: lo sapevano.

Il capo, con lentezza deliberata, andò a occupare la sua posizione, al centro del Luogo-d’Incontro. Senza bisogno di nessun ordine esplicito, la folla si aprì per far posto ai genitori e ai loro nati. Weena trasalì quando vide i loro occhi avidi appuntarsi sulla repulsiva calvizie di Shrick, sul suo cranio deforme. Sapeva quale sarebbe stato il verdetto.

Sperò che i nati degli altri venissero giudicati prima del suo, anche se ciò avrebbe ritardato la morte di suo figlio di pochi battiti di cuore soltanto.

Sperò…

«Weena! Portami tuo figlio, cosicché io possa vederlo e giudicarlo!»

Il capo protese le braccia scheletriche, prese il bambino dalle mani riluttanti della madre. I suoi pìccoli occhi profondamente infossati luccicarono al pensiero dell’abbondante sorsata di sangue rosso che ben presto avrebbe potuto godersi. Eppure, era riluttante a perdersi anche il sapore d’un solo battito di cuore dell’angoscia della madre. Forse era possibile provocarla al punto che l’attaccasse…

«Tu c’insulti», dichiarò, scandendo le parole, «portandoci questo » . Diede una stretta maligna a Shrick, il quale proruppe in uno strillo. «Guardate», proseguì Sterret, tenendo il piccolo staccato da sé con le braccia protese, «guardate, o popolo, quest’ignominia che la sventurata Weena ha portato al mio giudizio!»

«Ha la testa di un gigante», fece Weena, con un filo di voce. «Forse…»

«… suo padre è un gigante!»

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