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A. Chandler: L'uccisore di giganti

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A. Chandler L'uccisore di giganti

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Chiunque altro che non fosse stato Testa-Piccola, avrebbe girato su se stesso e sarebbe fuggito. Ma la mente ottusa di Testa-Piccola si rifiutò di registrare ciò che aveva appena visto. Forse, un’intera nutrizione o giù di lì dopo l’accaduto, l’orrore di quanto aveva visto sarebbe riuscito a farsi strada in lei, stordendola… o forse no. In ogni caso, continuò l’attacco. Alla cieca, per puro istinto, si scagliò contro la gola del gigante. Wesel ora percepì che il gigante era impaurito. Ma dopo una breve lotta, una delle sue mani riuscì ad agguantare la squittente e frenetica Testa-Piccola. La scagliò lontana da sé con violenza. Wesel sentì il colpo, quando il corpo della sua guardia colpi qualcosa di duro e resistente. E le vaghe impressioni che aveva continuato a ricevere dalla sua mente cessarono di colpo.

Malgrado il timor panico che si era impadronito di lei, Wesel notò che il gigante non era uscito dal combattimento del tutto illeso, poiché una delle sue mani era stata graffiata e sanguinava abbondantemente. E c’erano profondi graffi in quella faccia nuda e ripugnante. Dunque… i giganti erano vulnerabili! Poteva esserci stata, dopotutto, qualche briciola di verità in tutte quel delirante farfugliare di Tre-Occhi.

E poi Wesel dimenticò la sua inutile lotta contro i fili metallici che la ingabbiavano. Con orrore misto a nausea osservò ciò che il gigante stava facendo. Aveva preso il corpo floscio di Quattro-Braccia e l’aveva fissato a una superficie piatta. Da qualche parte aveva tirato fuori un intero spiegamento di strumenti luccicanti. Ne afferrò uno e lo passò lungo il corpo di Quattro-Braccia dalla gola all’inguine. Su entrambi i lati della lama affilata la pelle cadde giù, lasciando esposta la carne.

E la cosa peggiore era che tutto ciò non veniva fatto con odio o rabbia, né l’infelice Quattro-Braccia veniva fatta a pezzi per essere mangiata. C’era un che d’impersonale in tutta quella sanguinaria faccenda che faceva star male Wesel — poiché a quel punto, era riuscita a conquistare un sia pur limitato accesso alla mente del gigante.

Questi fece una pausa nel suo lavoro. Era infatti arrivato un altro della sua razza, e per molti battiti di cuore i due parlarono insieme. Esaminarono la carcassa mutilata di Quattro-Braccia, il corpo schiacciato di Testa-Piccola. E, insieme, fissarono Wesel che ringhiava impotente dentro la robusta gabbia.

Ma, nonostante la sua paura isterica, una parte della mente di Wesel restava fredda e stava ricevendo e immagazzinando gran copia d’impressioni, che però gettarono la parte animalesca di lei in un panico ancora più grande.

Mentre i due giganti parlavano, le impressioni erano chiare — con le loro due grandi e goffe teste sospese sopra la sua gabbia, a pochi palmi di distanza, quasi la sopraffacevano con la loro intensità. Wesel seppe chi erano lei e il Popolo, cos’era il loro mondo. Non avrebbe avuto la capacità di esprimerlo in parole… ma lo seppe. E vide la condanna che i giganti stavano preparando per il Popolo.

Con poche parole di congedo dal suo compagno il secondo gigante se ne andò. Il primo riprese il suo lavoro di smembramento di Quattro-Braccia. Finalmente, ebbe terminato. Ciò che rimaneva del corpo fu posto in contenitori trasparenti.

Il gigante raccolse poi Testa-Piccola. L’esaminò per molti battiti di cuore, girandola e rigirandola fra le grosse dita, Wesel pensò che avrebbe fissato anche quel corpo alla superficie piatta, per ripetergli le stesse cose che aveva fatto col corpo di Quattro-Braccia. Ma alla fine mise quel corpo da parte. Si tirò sopra le mani quella che sembrava una pelle supplementare. D’improvviso, i fili metallici a un’estremità della prigione furono tirate via e una di quelle immense mani calò giù per agguantare Wesel.

Dopo la morte di Grosse-Orecchie, Shrick dormì un po’. Era l’unico modo in cui poteva trovar sollievo da quella sensazione di perdita… dall’impressione pungente di aver tradito il suo più fedele seguace. Ma i suoi sogni furono tormentosi, infestati dai fantasmi del suo passato. In essi comparivano Grosse-Orecchie, e Zanna-Grossa, e una femmina ancora più straniera con la quale però sentiva di possedere un sentimento di stretta unione. Sapeva che era Weena, sua madre.

E poi, tutti questi fantasmi si dileguarono, lasciando soltanto l’immagine di Wesel. Ma non era la Wesel che lui aveva sempre conosciuto, fredda, sicura di sé, ambiziosa. Questa era una Wesel terrorizzata… una Wesel che calava dentro un nero abisso di dolore e di tortura perfino di quelli che lei aveva tanto spesso elargito agli altri. E sentì che lei l’invocava, con estrema urgenza.

Shrick si svegliò, spaventato dai suoi sogni. Ma sapeva che i fantasmi non avevano mai fatto male a nessuno, e men che meno potevano far del male a lui, Signore dell’Esterno. Si scosse, uggiolando un poco, poi cercò di rimettersi comodo per dormire ancora un po’.

Ma l’immagine di Wesel persisteva. Alla fine, Shrick dovette abbandonare i suoi tentativi di reimmergersi nell’oblio. E, sfregandosi gli occhi, emerse dalla sua caverna.

Alla fioca luce del Luogo-d’Incontro, a piccoli gruppi il suo Popolo si stava aggirando, parlando a bassa voce. Shrick chiamò le guardie. Vi fu un improvviso silenzio. Chiamò di nuovo. Alla fine una guardia rispose.

«Dov’è Wesel?»

«Non lo so… signore». L’ultima parola uscì fuori con riluttanza.

Poi, un’altra guardia gli diede spontaneamente l’informazione che Wesel era stata vista in compagnia di Quattro-Braccia e Testa-Piccola, mentre si inoltrava nelle gallerie che conducevano in quella parte dell’Esterno che si trovava sulla strada del Luogo-delle-Cose-Verdi-che-Crescono.

Shrick esitò.

Di rado si avventurava fuori senza la sua guardia personale, e Grosse-Orecchie era sempre stato uno di loro. Ma Grosse-Orecchie non c’era più. Si guardò intorno. E decise che non poteva fidarsi di nessuno fra quanti, in quel momento, si trovavano nel Luogo-d’Incontro. Il Popolo era rimasto orrificato e sconvolto dalle dure azioni indispensabili che lui aveva dovuto intraprendere nei confronti di quelli che avevano mangiato il cibo-che-uccide, e Shrick sapeva che, adesso, lo giudicavano un mostro ancora peggiore dei giganti. La loro memoria era corta… ma fino a quando non se ne fossero dimenticati, avrebbe dovuto agire con estrema cautela.

«Wesel è la mia compagna. Andrò da solo», dichiarò.

Alle sue parole, avverti un cambiamento di umore, e fu tentato di chiedere una scorta. Ma l’istinto — come pure una sua certa superiorità mentale — che gli avevano consentito di conservare la sua autorità, lo ammonirono di non buttar via il suo vantaggio.

«Andrò da solo», ripeté.

Coda-Corta, più ardito dei suoi compagni, parlò.

«E se non tornerai, Signore dell’Eterno? Chi dovrà prendere il…?»

«Tornerò», ribatté Shrick, troncando corto, esibendo nella sua voce fiducia che non provava.

Se nelle gallerie più popolate l’odore che distingueva Wesel era coperto da quello di molti altri, nelle gallerie frequentate raramente era forte e insistente… anche se adesso Shrick non aveva bisogno di usare i propri poteri olfattivi, poiché nel suo cervello quella piccola voce terrorizzata continuava a fargli urgenza: presto, presto… FAI PRESTO! gridava. Qualche potere al difuori della sua comprensione lo stava guidando in modo infallibile là dove la sua compagna aveva un disperato bisogno di lui.

Dalla porta della Barriera attraverso la quale Wesel era entrata nell’Interno — era stata lasciata aperta — penetrava un fiotto di luce intensa. E qui, la naturale prudenza di Shrick riprese il sopravvento. La voce dentro il suo cervello era, se possibile, ancora più urgente, ma l’instinto di conservazione era altrettanto forte. Quasi con timore Shrick sbirciò fuori della porta.

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