A. Chandler - L'uccisore di giganti

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L'uccisore di giganti: краткое содержание, описание и аннотация

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E qui avvenne una cosa terrificante. I lati della caverna premettero contro di loro. In tutto il mondo, in tutta la nave, le celle d’aria del materiale spugnoso si stavano espandendo, mentre la pressione scendeva a zero. Fu soltanto questo che salvò Shrick e Wesel, anche se non lo seppero mai. Il rozzo tappo che sigillava la loro caverna, che altrimenti sarebbe stato sparato fuori dalla pressione interna, si gonfiò fino a saldarsi con le pareti in espansione, creando nella loro caverna una cavità a tenuta quasi perfetta.

Ma i prigionieri non si trovavano in condizioni di apprezzarlo, anche se fossero stati in possesso delle indispensabili conoscenze. Il panico li afferrò entrambi. La claustrofobia era sconosciuta tra il Popolo — ma quelle pareti che si stavano chiudendo su di loro esulavano da qualunque precedente esperienza.

Forse Wesel, tra i due, aveva la testa più saldamente sulle spalle. Fu lei che si sforzò di trattenere il suo compagno, il quale aveva preso ad artigliare e a mordere con furia selvaggia, come impazzito, le pareti dilatate, rigonfie. Shrick neppure s’immaginava cosa c’era adesso fuori della caverna, ma anche se l’avesse saputo, non gli sarebbe importato. Il suo unico, frenetico desiderio, era uscir fuori. Dapprima riuscì a fare ben pochi progressi, poi gli tornò in mente la piccola lama tagliente che stava ancora stringendo in mano. Con essa aggredì la massa polposa. Le pareti della cella erano tese al massimo, quasi sul punto di esplodere, e sotto il suo assalto non opposero più resistenza di una bolla di sapone. Un po’ di spazio fu sgombrato e Shrick fu in grado di lavorare con più vigore ancora.

«Fermati! Fermati!, ti dico! Fuori della caverna c’è soltanto la morte che soffoca. E tu ci ucciderai entrambi!»

Ma Shrick non le prestò nessuna attenzione. Continuò a calar pugnalate e a tagliare. Ma solo con estrema lentezza riuscì ad allargare il primo squarcio che aveva praticato. Se le superfici rigonfie scoppiavano sotto le sue mani, sgonfiandosi in certi punti, in altri le pareti intatte si gonfiavano ancor di più.

«Fermati!» gridò una volta ancora Wesel.

Con le sole braccia, tirandosi dietro le gambe inutili, si tirò verso il suo compagno. Lottò con lui, mentre la disperazione le dava nuovo vigore. Così lottarono per molti battiti di cuore — silenziosi, selvaggi, dimentichi di tutto ciò che ognuno dei due doveva all’altro. Eppure, forse, Wesel non lo dimenticò mai del tutto. A dispetto di tutta la sua cieca, convulsa volontà di sopravvivere, i suoi poteri telepatici non cessarono mai di funzionare del tutto. Suo malgrado lei, come sempre, condivideva la mente dell’altro. E questo fattore psicologico le dava un vantaggio che compensava la paralisi della metà inferiore del suo corpo — e allo stesso tempo le impediva di spingere questo suo vantaggio fino alla sua logica conclusione.

Ma non poté salvarlo quando le sue dita, inavvertitamente, affondarono dentro la ferita nel braccio di lui. L’urlo lacerante, da spaccare i timpani, che Shrick lanciò, era un misto di dolore e di furore, e lo spinse ad attingere a riserve di energia che Wesel non aveva mai sospettato in lui. E la mano che stringeva la punta tagliente si mosse con forza irresistibile.

Per Wesel vi fu un battito di cuore d’impossibile dolore, di dispiacere per sé e per Shrick, di rabbia cieca verso i giganti che, sia pure in modo indiretto, avevano provocato tutto questo.

E poi il battito del suo cuore tacque per sempre.

Con la morte di Wesel, il delirio lasciò Shrick.

Là, nell’oscurità, passò le sue dita sensibili nella sua forma senza vita, assurdamente sperando che vi fosse ancora un fioco barlume di vita. Invocò il suo nome, scosse il suo corpo, con crescente, disperata energia. Ma alla fine la consapevolezza che era morta s’insinuò nel suo cervello — e vi rimase.

Nella sua breve vita, Shrick aveva sperimentato molte volte quel senso di perdita, ma mai con tanta dolorosa acutezza. E la cosa peggiore era la consapevolezza che era stato lui ad ucciderla.

Cercò di scostare da sé il fardello di questa sua colpa. Si disse che sarebbe morta in ogni caso a causa delle ferite ricevute per mano dei giganti. Cercò di convincersi che, ferite o non ferite, i giganti erano direttamente responsabili della sua morte.

Ma sapeva altresì che lui era l’assassino di Wesel, proprio come sapeva che tutto ciò che gli rimaneva da fare nella vita era far pagare il fio ai negrieri del suo Popolo.

Ciò lo rese cauto.

Per molti battiti di cuore restò là, immobile, nell’oscurità più fitta, senza più osare nuovi attacchi alle pareti rigonfie della prigione. Si disse che, in qualche modo, avrebbe saputo quando i giganti avrebbero nuovamente riempito d’aria il mondo. Il modo in cui l’avrebbe saputo, non riusciva a immaginarlo. Ma la convinzione rimaneva.

E quando, alla fine, col ritorno della pressione, la materia isolante riassunse dimensioni e consistenza normali, Shrick lo interpretò come il segno che lui, ora, poteva uscire senza pericolo. Riprese, allora, a tagliare il materiale spugnoso, poi si fermò. Tornò accanto al corpo di Wesel. Mormorò il suo nome soltanto una volta, passò le mani sopra quella forma rigida e silensiosa per l’ultima carezza.

Poi, non si voltò più indietro.

E quando, alla fine, la fioca luce del Luogo-d’Incontro filtrò là dentro, Wesel era sepolta nel profondo dei pezzi del materiale spugnoso che Shrick aveva continuato a gettare dietro di sé.

L’aria aveva un sapore vivificante, dopo l’atmosfera stantia che aveva dovuto respirare là, nella prigione, riciclandola più volte. Per qualche battito di cuore, Shrick fu colto dalle vertigini, per l’improvviso aumento della pressione, giacché buona parte dell’aria della sua prigione era sfuggita prima che il tappo si gonfiasse così da chiudere ermeticamente l’ingresso. Era probabile che, se non fosse stato per l’aria liberata là dentro dall’isolante spugnoso squarciato, lui sarebbe stato asfissiato da lungo tempo.

Ma questo lui non poteva saperlo… e anche se l’avesse saputo, la cosa non l’avrebbe preoccupato granché. Era vivo, mentre Wesel e tutto il Popolo erano morti. Quando la nebbia si schiari davanti ai suoi occhi, poté vederli. I loro corpi giacevano qua e là in disordine, contorti negli spasimi dell’ultima agonia, muta testimonianza dell’orrendo potere dei giganti.

E adesso che vide tanti morti, non provò affatto il travolgente dolore che avrebbe pensato di dover sentire. Provò invece una sorta di rabbia. Rifiutandosi di ascoltare il suo avvertimento, il Popolo l’aveva privato del suo regno. Non c’era nessuno, adesso, che potesse contendergli il dominio dell’Esterno — ma senza sudditi, volenti o nolenti, l’immenso territorio sotto il suo imperio era inutile.

Con Wesel viva sarebbe stato diverso.

Cos’era che aveva detto?… e la caverna di Lunga-Pelliccia il fabbricante di lance.

Poteva ancora udire la sua voce mentre diceva… e la caverna di Lunga-Pelliccia, il fabbricante di lance.

Forse… ma c’era soltanto un modo per accertarsene.

Trovò la caverna, vide che l’ingresso era stato sigillato. Sentì nascere dentro di sé un’incontrollabile favilla di speranza. Freneticamente, coi denti e gli artigli, strappò via l’isolante spugnoso. La grande, bella lama luccicante che si era conquistato nell’Interno giaceva, ben visibile, a non più d’una dozzina di palmi dal punto in cui si stava accanendo, ma tale era la sua furia cieca e irragionevole che ignorò del tutto l’utensile in grado di rendere molto più breve la sua impresa. Infine, l’ingresso della caverna fu sgombro. Un debole grido accolse l’afflusso d’aria e di luce. Per un po’ Shrick non riuscì a vedere cosa c’era là dentro, poi avrebbe anche potuto urlare la sua delusione.

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