Insisté dunque nel tentativo di trovare quella chiave, ma a parte le fuggevoli, aspre immagini di una Becky accusatrice ininterrottamente trascorrenti ai margini della coscienza, il forziere nel quale Kyle racchiudeva i suoi ricordi della Rebecca di un tempo continuò a rimanerle completamente inaccessibile.
Esasperata dall’insuccesso, Heather lasciò la struttura. Dopo una tappa in bagno chiamò l’ufficio di Kyle, lasciandogli nella casella vocale un messaggio in cui lo pregava di anticipare a quella sera la consueta cena del lunedì allo Swiss Chalet. Era impaziente di sapere se la mente di lui avesse in qualche modo rilevato la sua intrusione.
Si misero d’accordo per le nove. Con tanto tempo a disposizione, Heather pensò che poteva benissimo arrangiarsi da sé, quindi, pur con qualche esitazione, gli propose di cenare a casa. Kyle parve sorpreso, ma accettò di buon grado. Nell’occasione, Heather gli chiese anche di portarle in prestito la videocamera, e lui non fece obiezioni.
Eccoli dunque seduti adesso alle opposte estremità della gigantesca tavola da pranzo. Con a fianco altre due sedie desolatamente vuote, purtroppo. Quella vicina alla finestra era sempre stata di Becky; l’altra, mai tolta neppure dopo tutto quel tempo, di Mary. Heather aveva preparato un timballo di pasta e verdure. Non che fosse tra i piatti preferiti di Kyle… meglio non esagerare, non era proprio il caso d’inviargli il segnale sbagliato… però sapeva che non gli sarebbe dispiaciuto. Lo mise in tavola accompagnato da pane francese acquistato nel tornare a casa.
— Oggi al lavoro com’è andata? — gli domandò. Kyle prese una forchettata di timballo prima di rispondere. — Si tira avanti.
— Successo niente d’insolito? — buttò là Heather cercando di mantenere un tono disinvolto.
Kyle mise giù la forchetta e fissò sua moglie. Alla solita domanda su come fosse andato il lavoro era abituato, in tanti anni Heather gliel’aveva fatta innumerevoli volte… ma a quell’aggiunta rimase chiaramente perplesso.
— No — disse infine. — Niente d’insolito. — Rimase un poco in silenzio, poi, come se una domanda così strana richiedesse una risposta più articolata, soggiunse: — La lezione è andata bene, credo. Ma non ricordo granché. Avevo un tale mal di testa…
Un mal di testa, pensò Heather. Che fosse stato per via della sua intrusione?
— Peccato, mi dispiace — commentò. Tacque per qualche istante, domandandosi se la sua insistenza non rischiasse di suscitare sospetti. Ma doveva sapere se poteva spingersi oltre, più in profondità, impunemente. — Ti capita spesso di avere mal di testa quando sei al lavoro?
— Ma no, qualche volta. Sai com’è, tutto quel tempo fisso lì al computer… — con una scrollata di spalle liquidò la questione. — E a te, invece?
Avrebbe preferito non dover mentire, ma che poteva dirgli? Che aveva passato la giornata a navigare nello psicospazio? Che aveva fatto un’incursione nella sua mente?
— Oh, le solite cose.
Però non ebbe il coraggio di guardarlo negli occhi.
Il giorno dopo, sabato 12 agosto, Heather tornò presto in ufficio portando con sé la videocamera. La sistemò sulla scrivania di Omar, regolò l’inquadratura e la mise in funzione. Finalmente avrebbe saputo che cosa accadeva all’esterno quando l’ipercubo si ripiegava.
Quindi prese posto nella cavità centrale, ricollocò la porta, premette il pulsante di avvio.
Entrò senza indugio nella mente di Kyle, trovandolo anche oggi al lavoro. Era nel laboratorio di Mullin Hall, intento a risolvere qualcuno dei tanti problemi che ancora affliggevano il suo elaboratore quantico.
Provò dunque nuovamente a chiamare “Rebecca”, più e più volte, evocandone nel contempo diverse immagini.
Niente.
Possibile che Kyle l’avesse isolata in maniera così completa?
Provò allora a richiamare ricordi del fratello di Kyle, Jon, e quelli apparvero invece immediatamente.
Perché non riusciva ad accedere ai suoi pensieri su Becky?
Becky! Non Rebecca. Becky. Riprovò, caso mai la chiave fosse stata nel vezzeggiativo.
Niente. Eppure, immagazzinati da qualche parte nel proprio cervello, Kyle doveva avere innumerevoli ricordi di sua figlia: da neonata, da bambina, quando la portava all’asilo, la sua dolce Testolina…
Testolina!
Già, proviamo anche col nomignolo, accompagnato da immagini mentali: “Testolina”.
Di nuovo: “Testolina”.
Più forte: “Testolina!”
E… sì! Eccola lì, finalmente, una chiara immagine di sua figlia… sorridente, più giovane, più felice.
C’era riuscita, aveva forzato il blocco.
Comunque, individuare ricordi specifici non sarebbe stato affatto facile. Potevano volerci anni, a rovistare negli archivi di un’intera vita.
Quel che le serviva erano ricordi di Kyle da solo con Becky. E ancora non sapeva come fare a trovarli. Quindi ci voleva un altro punto di partenza… una situazione nella quale fosse stata coinvolta anche lei. Qualcosa di semplice, qualcosa cui fosse facile accedere.
Provare con una cena in famiglia, di prima che Mary morisse, di prima che Kyle e Becky se ne andassero?…
Però non poteva essere una cosa tanto generica, come il poster sulla parete di cucina con l’illustrazione di vari tipi di pasta o l’arredo nero e verde della sala da pranzo: quelli non erano oggetti legati a ricordi specifici, ma formavano piuttosto lo sfondo di migliaia di avvenimenti.
No, le servivano elementi precisi relativi a un’occasione particolare. Il cibo, per esempio. Petti di pollo alla griglia conditi con quella salsa da arrosti che piaceva tanto a Kyle. E una delle sue insalate preferite: lattuga sminuzzata, carote a rotelline, sedano triturato, mozzarella magra, una voluttuosa incaciatina di noccioline tostate, il tutto passato in salsa verde e servito in una bella zuppiera di cristallo…
Ma quei piatti li avevano gustati insieme centinaia di volte. Ci voleva qualcos’altro. Qualcosa di unico.
Provare con un capo d’abbigliamento?… Sì, però abbastanza inconsueto, diciamo la blusa dei Toronto Raptors, quella col rampante dinosauro scarlatto sul davanti. Già, lei però cos’avrebbe potuto indossare, se lui era vestito così? Vediamo: di solito al lavoro portava un completo giacca pantaloni, ma tornata a casa doveva essersi cambiata in jeans e… che altro?… forse una camicetta verde. Anzi, no, la camicetta blu. Ricordava appunto d’averla scelta una volta proprio perché andava bene con la blusa di Kyle… un fatto che a lui non diceva un bel nulla, ma a lei sì.
Riepilogando: quella stanza, quel menù, quella blusa, quella camicetta…
Ed ecco che all’improvviso tutti gli elementi s’incastrarono in modo univoco, dandole finalmente accesso a un ben preciso ricordo, una cena.
— … quasi accapigliato con DeJong. — La voce di Kyle, o per lo meno il ricordo che ne aveva lui. DeJong era il direttore amministrativo dell’Università. — Facile che ci tocchi sottrarre risorse al progetto SCIMMIA.
Heather pensò lì per lì che ci fosse qualcosa di sbagliato: quella conversazione non se la ricordava proprio. Ma Kyle si lamentava spesso per le riduzioni di bilancio e sicuramente quella volta era stata lei a non prestare attenzione. Infatti, quando Kyle pochi istanti dopo accennò ai problemi familiari di DeJong, la circostanza le tornò in mente eccome. Possibile che fosse così frivola da ignorare i problemi seri dando retta invece ai pettegolezzi?
Era sorprendente vedersi come la vedeva Kyle… e anche lusinghiero, considerato che agli occhi di lui dimostrava dieci anni di meno.
Entrò Becky e andò a sedersi. All’epoca portava i capelli molto più lunghi, una cascata di riccioli bruni sino a metà schiena.
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