Per un altro buon minuto rimase immobile, esitante, combattuta.
E poi…
Poi attraversò la stanza, sollevò il cubo in precedenza rimosso e lo portò più vicino alla struttura. Prese quindi una delle impugnature a ventosa fornite da Paul e la poggiò al centro di una delle facce del cubo, quella composta di due pannelli combacianti. In cima al manico di plastica nera sporgeva una piccola pompa; la tirò con decisione, e l’attrezzo fece presa sul cubo. Provò quindi a sollevare il cubo tenendolo per l’impugnatura. Temeva che potesse cadere a pezzi, ma l’intero ammennicolo tenne invece perfettamente.
Dopo un altro attimo di esitazione si rinfilò nella cavità e poi, traendo a sé la ventosa, tirò su il cubo rimettendolo al suo posto. Quello scattò in posizione senza difficoltà, agganciandosi.
Immersa d’improvviso nelle tenebre, Heather si sentì travolgere da un’ondata di panico.
Ma l’oscurità non era assoluta. La vernice piezoelettrica brillava lievemente, con la stessa sfumatura verdognola che emettono al buio certi balocchi per l’infanzia.
Respirò a fondo. Di aria ce n’era a volontà, sebbene l’angustia del luogo trasmettesse la sensazione di un’atmosfera pesante. Tuttavia, benché fosse evidente che non rischiava di rimanere soffocata lì dentro, Heather volle accertarsi di poter abbandonare la costruzione in qualunque momento. Spalancò le mani, e premendole sul pannello cercò di spinger via il medesimo cubo che poc’anzi aveva riagganciato.
Un’altra ondata di panico la sommerse: il cubo non voleva staccarsi. Forse era rimasta imprigionata dal campo d’integrità strutturale.
Allora chiuse le mani a pugno e batté con forza contro il cubo…
… che saltò via immediatamente andando a cadere sulla moquette, la faccia con la ventosa rivolta verso l’alto.
Heather sorrise, sollevata, un po’ vergognosa d’essersi spaventata a quel modo. Probabilmente era un bene che la struttura non fosse un’astronave… se continuava così avrebbe rischiato di presentarsi al primo contatto con le mutandine bagnate.
Uscì, si stiracchiò con calma, consentì al suo cuore di ritrovare il proprio ritmo normale.
Poi fece un altro tentativo, risalendo entro la struttura e usando la ventosa per richiudere quella che fra sé aveva già battezzato “la porta cubica”.
Stavolta rimase tranquillamente seduta, lasciando ai suoi occhi il tempo di adattarsi alla semioscurità e respirando l’aria tiepida.
Osservò il disegno fosforescente tracciato sul pannello che le stava di fronte, cercando invano di cavarne qualche significato. Ovviamente non aveva modo di stabilire se aveva orientato la costruzione nel modo giusto. Avrebbe potuto metterla, come ora, di fianco, oppure…
Oppure in senso inverso. Cioè, lei poteva anche starci seduta dentro voltata dalla parte opposta. Non c’era spazio per rigirarsi direttamente lì al chiuso, quindi riaprì la porta cubica, fece un mezzo giro allungando fuori le gambe, e ultimò la manovra ritirandole dentro mentre completava la rotazione. Non appena in posizione, rivolta ora verso l’estremità corta della struttura invece che verso quella lunga, afferrò il manico della ventosa per rimettere a posto la porta cubica, situata adesso alla sua destra.
Riaprendo la porta aveva vanificato il precedente adattamento all’oscurità, quindi attese che i suoi occhi si riabituassero.
Il che, lentamente, avvenne.
Di fronte a lei stavano due cerchi. Uno continuo, l’altro diviso in otto brevi archi.
Comprese all’istante. Il cerchio ininterrotto stava evidentemente per circuito chiuso e voleva dire “Acceso”. Il cerchio frazionato, ovviamente, significava “Spento”.
Heather trasse un profondo respiro, poi cominciò a sollevare il braccio sinistro.
— Alpha Centauri, arrivo — sussurrò e premette la palma della mano sul cerchio continuo.
All’inizio, nulla parve accadere. Ma poi Heather avvertì un senso di vuoto allo stomaco come si trovasse in un ascensore in rapida discesa lungo il suo condotto. Un attimo dopo sentì uno schiocco nelle orecchie.
Colpì col pugno il pulsante di arresto…
…e tutto ridivenne normale.
Aspettò che le si calmasse il respiro. Provò la porta, dischiudendola leggermente.
Va bene: poteva fermare la sequenza a piacimento, e poteva uscire quando voleva.
Quindi decise di riprovare. Chiuse gli occhi facendo appello a tutto il suo coraggio, poi li riaprì, trasse a sé l’impugnatura per riagganciare la porta e infine tese l’indice sinistro a toccare il centro dell’area racchiusa entro il cerchio continuo.
Tornò il senso di vuoto allo stomaco, mentre la rinnovata pressione sulle orecchie le provocava una duplice lieve fitta di dolore.
E dinanzi a Heather le costellazioni di quadrangoli fosforescenti presero a spostarsi, a trasformarsi, a ridisporsi, mentre…
…mentre lo sviluppo d’ipercubo da lei costruito cominciava ad avvolgersi su se stesso in direzione anà ò katà, ripiegandosi in un tesseratto che la racchiudeva nel suo nucleo.
Heather si sentì percorrere le membra da un flusso attorcente, e sebbene la visuale circostante consistesse all’apparenza in null’altro che casuali tracciati di vernice piezoelettrica, le parve che la configurazione percepibile dalla visione periferica sinistra fosse identica a quella rilevabile sulla destra. I bordi rettilinei dei pannelli quadrati andavano piegandosi avanti e indietro, ora concavi, ora convessi. Abbassando lo sguardo sul proprio corpo, nel fievole chiarore Heather lo vide allungato e appiattito, come se qualcuno avesse impresso la sua immagine su un foglio di carta e poi incollato il foglio sulla faccia interna di una sfera.
Eppure, a parte l’innegabile sensazione di veloce movimento avvertita dal suo stomaco e i cambiamenti di pressione percepiti dalle orecchie, oltre a saltuari brillamenti oculari… pioggerellina di coriandoli dovuta anch’essa, lo sapeva, alle variazioni di pressione… non provava alcun vero disagio. Era attorniata da forme che si curvavano e distorcevano, e poteva vedere se stessa subire i medesimi fenomeni, ma le sue ossa erano capaci di deformarsi senza subire danno.
Il ripiegamento continuò. L’intero processo prese non più di pochi secondi, a giudicare dal precipitoso metronomo del cuore che saliva a martellarle nelle orecchie, ma mentre si svolgeva, parve che il tempo si fosse rarefatto.
D’un tratto ogni cosa smise di muoversi. La trasformazione era completa, e lei si trovava imprigionata in un tesseratto.
No.
Si sforzò di mantenere la calma. No, non si trovava imprigionata. La scelta di andare avanti era sempre dipesa da lei. Gli alieni, chiunque fossero, non avrebbero certo ideato un artifizio di tale complessità al solo scopo di arrecarle danno. Il controllo della situazione stava ancora in mano sua, si disse. Lei era una spontanea visitatrice, non una prigioniera.
Sentiva comunque che quell’esperienza non poteva esaurirsi nella sensazione dello spazio che si ripiegava su se stesso. Non era plausibile che i Centauri avessero sprecato dieci anni per insegnare all’umanità a costruire una specie di bizzarro ottovolante virtuale. Doveva esserci ben altro…
E infatti c’era.
All’improvviso il tesseratto si spalancò, mentre i pannelli si sconnettevano sui bordi. Avvenne come lo sbocciare di una corolla in una ripresa accelerata, con eleganza e in perfetto silenzio.
I pannelli parvero rapidamente allontanarsi all’infinito, seguendo ciascuno una diversa traiettoria, e Heather si trovò librata nel vuoto.
Ma non nello spazio.
Non nello spazio esterno, comunque.
Si sgranchì, distendendo le membra. C’era aria da respirare, e c’erano luci multicolori da vedere. Abbassò lo sguardo sul proprio corpo…
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