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Robert Sawyer: L'equazione di Dio

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Robert Sawyer L'equazione di Dio

L'equazione di Dio: краткое содержание, описание и аннотация

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Come si sono estinti i dinosauri? Domanda vecchia, per il lettore di fantascienza. E che ha avuto mille risposte. Nel caso di questo brillante romanzo, tuttavia, l’interrogativo è molto più complesso e andrebbe riformulato così: provata scientificamente l’esistenza di Dio, E soprattutto, perchè ha deciso di estinguere periodicamente le forme di vita superiori su tutti i mondi abitati? E’ l’assillo che tormenta Hollus, un ragno intelligente venuto dallo spazio che un bel giorno entra nel Royal Museum, a Toronto, e chiede di parlare con uno scienziato. Lo portano da Thomas Jericho, paleontologo, e l’aracnide rivela importanti informazioni sulle origini della vita. Non solo, ma propone alle menti migliori della Terra di unirsi in una ricerca che altri pianeti hanno già cominciato per loro conto, e che solo lo sforzo di tutte le intelligenze potrà coronare di successo. La domanda è infatti: che intenzioni ha il Creatore?

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Altre catene consistevano di cromosomi umani posti in mezzo a cromosomi forhilnor e wreed. Alcune catene erano lunghe solo due cromosomi: in genere, uno umano e uno forhilnor. E sei cromosomi dei Wreed rimasero inalterati.

Era adesso evidente che le catene di dna avevano la capacità innata di fare molto di più, non semplicemente morire o formare tumori, una volta eliminati i loro telomeri. Anzi, i cromosomi privi di telomero erano pronti per l’ultimo passo lungamente atteso. E ora che forme di vita intelligenti di diversi mondi erano finalmente, con una piccola spinta, venute in esistenza insieme, quei cromosomi erano in grado di muovere quel passo.

Ora capii perché il cancro esisteva… perché Dio aveva bisogno di cellule che continuassero a dividersi anche dopo avere esaurito i telomeri. I tumori in forme di vita isolate erano semplicemente uno sfortunato effetto collaterale; come T’kna aveva detto, “Lo specifico spiegamento di realtà che includeva il cancro, presumibilmente indesiderabile, di sicuro conteneva anche qualcosa di molto desiderato”. E la cosa molto desiderata era questa: la capacità di legare cromosomi, di unire specie diverse, di concatenare forme di vita… il potenziale biochimico per creare qualcosa di nuovo, qualcosa di più.

Battezzai i cromosomi combinati: li chiamai ipersomi.

E gli ipersomi facevano ciò che fanno i normali cromosomi: si riproducevano, aprendosi nel senso della lunghezza, separandosi in due parti, aggiungendo le basi corrispondenti prelevate dal brodo nutritivo… una citosina accoppiata a ogni guanina; una timina per ogni adenina… per riempire le loro metà ora carenti.

Qualcosa di affascinante si verificò la prima volta che gli ipersomi si riprodussero: la catena divenne più corta! Grandi sequenze di dna della regione intragenica… ciarpame… caddero via durante il processo di copiatura. Anche se gli ipersomi contenevano il triplo di dna attivo rispetto ai normali cromosomi, formavano sequenze molto più compatte. Gli ipersomi non aumentavano il limite teorico di grandezza per cellule biologiche; anzi, stipavano più informazioni in meno spazio.

E naturalmente, quando gli ipersomi si riprodussero, la cellula che li conteneva si suddivise, creando due cellule figlie.

E poi queste cellule si divisero. Ancora e ancora.

Prima della parie centrale del cambriano, la vita aveva avuto un vincolo fondamentale imposto dal fatto che le cellule fertilizzate non potevano suddividersi più di dieci volte, limitando gravemente la complessità degli organismi risultanti.

Poi si verificò l’esplosione del cambriano e la vita di colpo divenne più evoluta.

C’erano però ancora dei limiti. Un feto poteva ingrossarsi solo fino a un certo punto: neonati umani e Forhilnor e Wreed rientravano tutti nell’ordine massimo di cinque chilogrammi. Neonati più grandi avrebbero richiesto canali di nascita enormemente più larghi; sì, corpi più grandi avrebbero potuto ospitare cervelli più grandi, ma gran parte della massa cerebrale aggiunta sarebbe servita solo a controllare il corpo più grande. Forse, solo forse, una balena era intelligente come l’uomo… ma non più intelligente. La vita aveva raggiunto, pareva, il conclusivo livello di complessità.

Invece il feto spinto da ipersomi continuò a diventare sempre più grande nell’utero artificiale. Ci eravamo aspettati che a un certo punto smettesse di crescere: oh, un Forhilnor poteva nascere con un cromosoma di doppia lunghezza; un bambino umano poteva sopravvivere per un certo tempo pur avendo tre cromosomi ventuno. Ma questa combinazione, questa folle miscela genetica, questo guazzabuglio, era certamente esagerato, spingeva troppo lontano i limiti del possibile. Molte gravidanze… wreed o forhilnor o umane… abortiscono spontaneamente allo stadio iniziale, quando qualcosa va male nello sviluppo dell’embrione, di solito ancora prima che la madre si renda conto d’essere incinta.

Il nostro feto però, il nostro impossibile triplo ibrido, non abortì.

In tutte e tre le specie, l’ontogenesi, ossia lo sviluppo del feto, pare ricapitolare la filogenesi, ossia la storia evolutiva di quell’organismo. Gli embrioni umani sviluppano e poi scartano branchie, coda e altri chiari echi del proprio passato evolutivo.

Anche quel feto attraversava degli stadi, mutava la propria morfologia. Ero incredulo… mi pareva di guardare l’esplosione cambriana svolgersi sotto i miei occhi, centinaia di piani corporei provati e scartati. Simmetria radiale, simmetria quadrilatera, simmetria bilaterale. Orifizi per la respirazione e branchie e polmoni e altre cose che nessuno di noi riconobbe. Code e appendici non meglio definite, occhi compositi e peduncoli oculari, corpi segmentati e corpi ininterrotti.

Nessuno aveva mai capito che cosa significava l’ontogenesi che ricapitolava in apparenza la filogenesi, ma non si trattava di una vera ripetizione della storia evolutiva dell’organismo… ciò era evidente, dal momento che le forme non erano uguali a quelle trovate come fossili. Ora però lo scopo pareva chiaro: il dna conteneva di sicuro una routine d’ottimizzazione, provava ogni possibile mutazione e poi sceglieva quali adattamenti esprimere. Vedevamo non solo soluzioni terrestri e di Beta Hydri e di Delta Pavonis, ma anche miscele di tutte e tre.

Alla fine, dopo quattro mesi, il feto parve decidersi per un piano corporeo, una fondamentale architettura diversa da quella dell’Uomo e dei Forhilnor e dei Wreed. Il corpo del feto consisteva in un tubo a ferro di cavallo, circondato da un anello dal quale derivavano sei arti. C’era uno scheletro interno in formazione, visibile nella sostanza trasparente del corpo, ma non era di osso liscio, bensì di fasci di materiale intrecciato.

Pensammo di dare un nome all’embrione. Lo chiamammo Wibadal, parola forhilnor che significava “pace”.

Un’altra figlia che non sarei vissuto tanto da veder crescere.

Come per il mio Ricky, però, sono sicuro che sarebbe stata una figlia adottiva, curata e nutrita se non dall’equipaggio della Merelcas, dall’enorme tenebra palmata che si estendeva nel cielo.

Dio era il programmatore.

Le leggi della fisica e le costanti fondamentali erano il codice sorgente.

L’universo era l’applicazione. E contava 13,9 miliardi di anni, fino a quel momento.

Il fatto che la capacità di trascendere, di scartare la biologia, giungesse troppo presto nella vita di una razza, era un baco, una falla nel progetto, una complicazione non voluta. Alla fine però, mediante accurata manipolazione, il programmatore aveva eliminato quel baco.

E Wibadal?

Wibadal era il risultato. Il punto di tutto.

Le augurai buona fortuna.

Era l’antico modo di procedere, il motore che aveva sempre spinto l’evoluzione. Una vita termina; un’altra inizia.

Fui di nuovo posto in animazione sospesa e trascorsi i successivi undici mesi senza subire altre degenerazioni provocate dal cancro. Quando la gestazione di Wibadal si concluse, Hollus mi risvegliò per quella che, lo sapevamo tutt’e due, sarebbe stata l’ultima volta.

I Wreed avevano annunciato che quello sarebbe stato il giorno; la bambina era ormai completa e sarebbe stata tolta dall’utero artificiale. — Possa esprimere il meglio di tutti noi — disse T’kna, il Wreed che avevo conosciuto all’inizio, per telepresenza, tanti mesi… e tanti secoli… fa.

Hollus ballonzolò. — Amen — disse.

Ero ancora intontito per il risveglio, ma guardai affascinato Wibadal che veniva estratta dall’utero. Venne al mondo piangendo, proprio come avevo fatto io e tutti i miliardi di creature nati prima di me.

Hollus e io passammo delle ore solo a guardarla, una creatura strana, bizzarra, già grande la metà di me.

— Chissà quale sarà la sua durata di vita — dissi alla mia amica forhilnor; forse era una domanda insolita, ma la durata di vita era una cosa che avevo sempre in mente.

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