Continuammo ad avvicinarci. Alla fine potevo distinguere qualcosa sullo scafo verde dell’astronave: delle scritte, in giallo. Due righe: una, in un sistema di segni geometrici, triangoli e quadrati e cerchi, alcuni con puntini in orbita intorno a essi; l’altra, una serie di ghirigori che assomigliavano vagamente all’arabo. Avevo già visto segni simili a quelli della prima riga, sul proiettore di Hollus, perciò pensai che fosse la scrittura dei Forhilnor; l’altra sarà stata quindi quella dei Wreed. — Cosa c’è scritto? — domandai.
— Alto — rispose Hollus. Fissai l’aliena, attonito.
— Scusa — disse Hollus. — Un piccolo scherzo. È il nome della nave.
—Ah! Merelcas, vero? Cosa significa?
— Belva Vendicatrice dello Sterminio — disse Hollus.
Deglutii con forza. Una parte di me si era aspettata, credo, uno di quei momenti tipo “È un libro di cucina!” Allora però Hollus increspò i peduncoli oculari, ridendo. — Scusa — ripeté — ma non ho saputo resistere. Significa “Viandante stellare” o qualcosa di simile.
— Piuttosto blando — dissi, augurandomi di non essere offensivo.
Hollus distanziò al massimo i peduncoli oculari. — È stato deciso da un comitato — precisò.
Sorrisi: proprio come il nome per la Sala Scoperte, al rom. Guardai di nuovo l’astronave. Mentre ero distratto, nella fiancata era comparsa un’apertura, non so se a iride o a pannello mobile. Era illuminata di luce giallastra e lasciava scorgere all’interno altre tre navette d’atterraggio nere.
La nostra navetta continuò ad avvicinarsi.
— Dove sono le stelle? — domandai. Hollus mi fissò.
— Mi aspettavo di vedere stelle, nello spazio.
— Ah. Il bagliore del sole e della Terra le fanno scomparire. — Disse alcune parole nella sua lingua musicale e sullo schermo a parete comparvero le stelle. — Ora il computer ha aumentato la luminosità apparente di ciascuna stella in modo che sia visibile. — Col braccio sinistro indicò un punto. — Vedi quello zigzag? È Cassiopea. Proprio sotto la stella centrale ci sono Mu ed Eta Cassiopeae. — Intorno alle stelle indicate comparve un cerchietto creato dal computer, — E vedi quella chiazza più sotto? — Comparve un altro cerchietto. — Quella è la galassia Andromeda.
— Bellissima — dissi.
Ben presto però la Marelcas riempì tutto il campo visivo. Ogni operazione pareva automatica: a parte un occasionale comando a voce, da quando eravamo saliti a bordo Hollus non aveva fatto niente.
Vi fu un rumore di ferraglia, trasmesso dallo scafo, quando entrammo in contatto con un adattatore di attracco nella parete più lontana dello scomparto aperto. Hollus puntò i piedi contro la paratia, si diede una spinta e veleggiò verso il portello. Tentai di seguirla, ma mi accorsi di essermi allontanato troppo dalla parete: non avevo niente a portata di braccia e di gambe, non potevo darmi la spinta.
Hollus capì subito il mio guaio e increspò di nuovo i peduncoli oculari, ridendo. Tornò indietro e mi tese la mano. Sentii che era davvero Hollus in carne e ossa, perché non c’era il formicolio elettrostatico. Hollus si diede di nuovo la spinta contro la paratia e veleggiammo insieme verso il portello, che si aprì al nostro avvicinarsi.
Tre Forhilnor e due Wreed ci aspettavano. I Forhilnor erano facili da distinguere, perché ciascuno portava un indumento di colore diverso, ma i Wreed parevano proprio uguali l’uno all’altro.
Passai tre giorni a esplorare l’astronave. L’illuminazione era tutta indiretta e non si vedeva la fonte. Le pareti e gran parte delle attrezzature erano grigio-azzurro. Immaginai che per i Wreed e i Forhilnor quel colore, non molto diverso da quello del cielo, fosse ritenuto una tinta neutra, usata dove noi terrestri usiamo di solito il beige. Visitai l’habitat wreed, ma vi sentii un odore di muffa che trovai sgradevole; trascorsi la maggior parte del tempo nel modulo comune. Conteneva due centrifughe concentriche per simulare la gravità; l’esterna riproduceva le condizioni su Beta Hydri III, l’interna quelle su Delta Pavonis II.
Noi quattro passeggeri terrestri (io stesso; Qaiser, la donna schizofrenica; Zhu, il vecchissimo contadino cinese; Huhn, il gorilla dal dorso argenteo) trovavamo piacevole guardare il favoloso spettacolo della Terra, una splendida sfera di lucida sodalite, che si faceva sempre più piccola man mano che la Merelcas procedeva nel suo viaggio (anche se Huhn, ovviamente, non si rendeva conto di cosa vedeva).
In meno di un giorno oltrepassammo l’orbita della Luna. Ora ci trovavamo più lontano dalla Terra di quanto l’uomo non fosse mai andato, eppure avevamo percorso neanche un decimiliardesimo della distanza prevista.
Cercai ripetutamente di parlare con Zhu: il cinese all’inizio era assai diffidente nei miei riguardi (in seguito mi disse che ero il primo occidentale che avesse conosciuto) ma alla fine cambiò idea, anche perché parlavo cinese mandarino. Immagino però di avere fatto chissà quanti errori. Mi era facile capire perché io, uno scienziato, volessi partire per Betelgeuse; mi era più difficile capire come mai un vecchio contadino volesse fare la stessa cosa. E Zhu era davvero vecchio: lui stesso non sapeva con esattezza in quale anno era nato, ma non mi sarei sorpreso se fosse stato prima della fine del Diciannovesimo secolo.
— Vado in cerca di Illuminazione — disse Zhu. Parlava lentamente, quasi in un soffio. — Cerco prajna, pura e assoluta conoscenza. — Mi guardò con occhi velati. — Dandart — (era il Forhilnor che si era legato a lui) — dice che l’universo ha subito una serie di nascite e di morti. Come ovviamente fa l’individuo, finché non raggiunge l’illuminazione.
— Allora vieni con noi per motivi religiosi? — domandai.
— Motivi che riguardano tutto — rispose semplicemente Zhu.
Sorrisi. — Auguriamoci che il viaggio valga la pena.
— Sono sicuro che varrà la pena — disse Zhu, con un’espressione di pace sul viso.
— Sei certo che non ci siano pericoli? — dissi a Hollus, mentre scendevamo nella sala dove mi avrebbero messo in animazione sospesa.
L’aliena increspò i peduncoli oculari. — Voli nello spazio a quella che definiresti velocità rompicollo, diretto verso una entità di potenza quasi inconcepibile, e ti preoccupi se il procedimento di ibernazione è sicuro?
Risi. — Be’, se la metti in questo modo…
— È sicuro, stai tranquillo.
— Ricordati di svegliarmi, quando arriviamo a Betelgeuse.
Hollus riusciva a essere perfettamente impassibile, a volte. — Prenderò un appunto — rispose.
Susan Jericho, sessantaquattro anni ormai, sedeva nello studio della casa in Ellerslie Street. Erano trascorsi quasi dieci anni dalla partenza di Tom. Naturalmente, se Tom fosse rimasto sulla Terra, non sarebbe stato più in vita da quasi altrettanto tempo. Invece era presumibile che fosse vivo, in animazione sospesa, a bordo di un’astronave di alieni, pronto per essere riportato in vita fra 430 anni.
Susan capiva. La portata di quel concetto però le faceva venire l’emicrania e quel giorno era un giorno di festa, non di sofferenza: il sedicesimo compleanno di Richard Blaine Jericho.
Susan gli aveva regalato ciò che suo figlio più desiderava: la promessa di pagargli le lezioni di guida e, ottenuta la patente, di comprargli un’automobile. Aveva ricevuto un mucchio di soldi dall’assicurazione e la spesa non era un problema. La Great Canadian Life aveva fatto per breve tempo il tentativo di non pagare: Tom Jericho non era realmente morto, sosteneva. Ma quando i media erano venuti a conoscenza della storia, la gol aveva subito un tale assalto che il presidente della società aveva chiesto pubblicamente scusa e aveva consegnato di persona a Susan e a suo figlio l’assegno di cinquecentomila dollari.
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