Mi rendevo conto di esporre il problema in termini matematici… fattori, equazioni, questioni monetarie… ma le parole mi erano venute così, senza che le avessi preparate. Mi augurai di non avere completamente confuso il Wreed.
— E a me domandi quale scelta dovresti fare? — disse la voce del traduttore.
— Sì — risposi.
Rumore di pietra frantumata, seguito da un breve silenzio. Poi: — La scelta morale è ovvia. È sempre ovvia.
— E qual è?
Altro acciottolio, poi: — La morale non può essere fornita da una fonte esterna — disse T’kna e con le quattro braccia si toccò il petto a pera capovolta. — Deve giungere dall’interno.
— Non me lo dirai, vero?
Il Wreed ondeggiò e scomparve.
Quella sera, mentre Ricky guardava la tv al pianterreno, Susan e io ci sedemmo sul divano.
Ed esposi la mia decisione.
— Ti amerò sempre — dissi a Susan.
Lei chiuse gli occhi. — Ti amerò sempre anch’io.
Non c’è da stupirsi che mi piacesse tanto Casablanca. Ilsa Lund sarebbe andata con Victor Laszlo? O sarebbe rimasta con Rick Blaine? Avrebbe seguito il marito? O avrebbe seguito il proprio cuore?
E c’erano cose più grandi di lei? Più grandi di Rick? Più grandi di tutt’e due? C’erano altri fattori da considerare, altri termini dell’equazione?
Ma… siamo onesti… c’era qualcosa di più grande, nel mio caso? Certo, Dio poteva essere al centro della faccenda… ma se fossi andato a Betelgeuse, niente sarebbe cambiato, ne sono sicuro… mentre la resistenza di Victor contro i nazisti avrebbe collaborato a salvare il mondo.
Tuttavia avevo deciso.
Per quando difficile fosse, avevo preso la decisione.
Non avrei mai saputo però se era quella giusta.
Mi sporsi a baciare Susan, la baciai come se quella fosse l’ultima volta.
— Ciao, giovanotto! — dissi, entrando nella stanza di Ricky.
Ricky era seduto alla scrivania, sul cui piano era stampata una carta geografica del mondo. Con le matite colorate disegnava qualcosa e sporgeva la lingua, al massimo della concentrazione. — Sì, papà — disse.
Diedi un’occhiata in giro. La stanza era in disordine, ma non un disastro. Vestiti sporchi lasciati sul pavimento; di solito lo sgridavo, per questo, ma non oggi. Ricky aveva parecchi piccoli scheletri di dinosauro, di plastica, che gli avevo portato io, e un giocattolo parlante, regalo di Natale. E libri, tanti libri per bambini: il nostro Ricky sarebbe stato un accanito lettore, da grande.
— Figliolo — dissi e aspettai pazientemente che mi rivolgesse tutta l’attenzione. Stava completando un elemento del disegno… pareva un aeroplano. Lo lasciai terminare: so quanto può essere tormentoso il lavoro non terminato. Finalmente Ricky mi guardò e parve sorpreso che fossi ancora lì. Inarcò le sopracciglia, a mo’ di domanda.
— Figliolo — ripetei — sai che papà è stato molto male.
Ricky posò la matita colorata: aveva capito che si trattava di cose serie. Annuì.
— E, sì, penso che tu sappia già che non migliorerò.
Sporse le labbra e annuì con coraggio. Mi si spezzava il cuore.
— Sto per partire — dissi, — Vado via con Hollus.
— Può guarirti? Lui ha detto che non poteva, però…
Ricky non sapeva che Hollus era femmina, ma non volevo cambiare discorso proprio ora. — No, no, lui non può fare niente per me. Ma, be’, va a fare un viaggio e voglio andare con lui. — Ero già stato via di casa varie volte… per scavi, per conferenze. Ricky era abituato.
— Quando torni? — E poi, con angelica innocenza: — Mi porti un regalo?
Chiusi gli occhi per un attimo. Avevo un nodo allo stomaco.
— Ah, stavolta non torno — dissi piano.
Ricky rimase in silenzio a digerire la notizia. — Vuoi dire… vuoi dire che parti per morire?
— Mi spiace davvero. Mi spiace tantissimo lasciarti.
— Non voglio che muori.
— Nemmeno io voglio morire, ma… ma a volte non abbiamo nessuna scelta.
— Posso… Voglio venire con te.
Sorrisi tristemente. — Non puoi, Ricky. Devi stare qui e andare a scuola. Devi stare qui e aiutare mamma.
— Ma…
Aspettai che concludesse l’obiezione. Ma lui disse solo: — Non andare, papà.
Invece l’avrei lasciato davvero. Quello stesso mese, sull’astronave di Hollus, o fra un paio di mesi, in un letto d’ospedale, con tubicini nelle braccia e nel naso e nel dorso della mano, monitor di ecg pigolanti sullo sfondo, infermiere e medici affannati a correre avanti e indietro. In un modo o nell’altro, me ne sarei andato. Non avevo scelta, ma potevo dire la mia sul quando e sul come.
— Mi è difficile andare via — sospirai. Non potevo dirgli che volevo essere ricordato da lui com’ero adesso, anche se avrei voluto che mi ricordasse com’ero un anno fa, con venti chili in più e una ragionevole capigliatura. Meglio così, comunque, che non come sarei divenuto fra poco.
— Allora non andare, papà.
— Mi spiace, giovanotto, mi spiace davvero.
Ricky era bravo, come qualsiasi bambino della sua età, a supplicare e a piagnucolare per stare alzato fino a tardi, per ottenere un giocattolo che desiderava, per mangiare ancora un po’ di dolce. Parve capire, però, che quel comportamento non avrebbe funzionato in questo caso e gli volli ancora più bene per quella saggezza da bambino di sei anni.
— Ti voglio bene, papà — disse Ricky, con gli occhi adesso umidi.
Mi chinai a sollevarlo dalla sedia e me lo strinsi al petto. — Ti voglio bene anch’io, figliolo.
L’astronave di Hollus, la Merelcas, era del tutto diversa da come m’aspettavo. Mi ero abituato alle astronavi dei film, con ogni sorta di particolari nello scafo. Quell’astronave invece aveva superficie perfettamente liscia. Consisteva di un blocco rettangolare a una estremità e di un disco perpendicolare all’altra, collegati da due lunghi montanti tubolari. Il tutto di colore verde chiaro. Non avrei saputo dire quale parte fosse la prua. Anzi, era impossibile avere idea delle dimensioni: non c’era niente che riconoscessi… neppure gli oblò. La nave poteva essere lunga solo alcuni metri oppure dei chilometri.
— Quant’è grande? — domandai a Hollus, che galleggiava, privo di peso, accanto a me.
— Lunga circa un chilometro — mi rispose. — La parte rettangolare è il modulo di propulsione; i montanti sono alloggiamenti per l’equipaggio, uno per i Forhilnor, l’altro per i Wreed. E il disco è la zona comune.
— Grazie ancora per avermi portato con te — dissi. Mi tremavano le mani per l’entusiasmo. Negli anni Ottanta si era brevemente parlato di mandare un giorno un paleontologo su Marte e avevo sognato a occhi aperti di essere io quel fortunato. Naturalmente, però, avrebbero voluto uno specialista in invertebrati: nessuno credeva seriamente che dei vertebrati fossero mai vissuti sul pianeta rosso. Se Marte aveva avuto un ecosistema, come sosteneva Hollus, probabilmente l’aveva avuto solo per alcune centinaia di milioni di anni e l’aveva perduto quando l’atmosfera era volata via nello spazio.
Tuttavia… c’è una fondazione chiamata “Esprimi un Desiderio”, che cerca di esaudire le ultime richieste di bambini con malattie terminali; non so se esista un analogo gruppo per adulti e, per essere onesto, non sono sicuro di quale desiderio avrei espresso, se me ne avessero dato l’opportunità. Questo viaggio andava benissimo. Eccome!
L’astronave continuò a ingrandirsi nello schermo. Hollus aveva detto che era stata “mascherata” per più di un anno, in modo da essere invisibile a osservatori sulla Terra, ma ormai era superfluo tenerla nascosta.
Una parte di me avrebbe voluto che ci fossero oblò, sulla navetta e sulla Merelcas. Ma non ce n’erano: le due navi avevano uno scafo privo d’interruzioni. Immagini dell’esterno erano proiettate su schermi grossi come una parete. A un certo punto li avevo esaminati attentamente, ma non ero riuscito a distinguere né pixel né linee di scansione né sfarfallio. Gli schermi avevano la stessa funzione di un finestrino di vetro; anzi, per molti versi erano migliori: erano anabbaglianti e ovviamente potevano zoomare, mostrare la ripresa da un’altra telecamera o le informazioni desiderate. Forse a volte la simulazione è davvero migliore della realtà.
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