Robert Sawyer - L'equazione di Dio

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L'equazione di Dio: краткое содержание, описание и аннотация

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Come si sono estinti i dinosauri? Domanda vecchia, per il lettore di fantascienza. E che ha avuto mille risposte. Nel caso di questo brillante romanzo, tuttavia, l’interrogativo è molto più complesso e andrebbe riformulato così: provata scientificamente l’esistenza di Dio,
E soprattutto, perchè ha deciso di estinguere periodicamente le forme di vita superiori su tutti i mondi abitati? E’ l’assillo che tormenta Hollus, un ragno intelligente venuto dallo spazio che un bel giorno entra nel Royal Museum, a Toronto, e chiede di parlare con uno scienziato. Lo portano da Thomas Jericho, paleontologo, e l’aracnide rivela importanti informazioni sulle origini della vita. Non solo, ma propone alle menti migliori della Terra di unirsi in una ricerca che altri pianeti hanno già cominciato per loro conto, e che solo lo sforzo di tutte le intelligenze potrà coronare di successo. La domanda è infatti: che intenzioni ha il Creatore?

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L’uomo con la mitraglietta ci indicò di andare avanti, I quattro alieni erano alla retroguardia, formavano una barriera fra noi umani dentro e la polizia fuori. Rimpiansi allora di non avere detto a Hollus di lasciare la navetta nella Passeggiata del Filosofo. Se i poliziotti l’avessero vista, forse avrebbero capito che gli alieni non erano la proiezione olografica di cui parlavano i giornali, ma creature in carne e ossa. Nel caso nostro, qualche furbone avrebbe potuto avere l’idea di centrare i due uomini armati, sparando attraverso le proiezioni degli alieni che li coprivano.

Uscimmo dalla Rotonda, salimmo i quattro scalini del pianerottolo di marmo fra i due pozzi delle scale, ciascuno con il totem al centro, e poi…

E poi tutto andò a catafascio.

Dal pozzo delle scale alla nostra destra giunse dal pianterreno, senza far rumore, un agente nell’uniforme della squadra d’emergenza, con giubbotto antiproiettile e fucile d’assalto. I poliziotti avevano astutamente sistemato un gruppo all’esterno dell’ingresso principale e intanto avevano fatto entrare una squadra dall’ingresso del personale nel vicolo fra il rom e il planetario.

— J.D.! — gridò Cooter, scorgendo il poliziotto, — Guarda!

J.D. ruotò la mitraglietta e aprì il fuoco. Il poliziotto fu spinto all’indietro sugli ampi scalini e il suo giubbotto fu messo alla prova: si lacerò in vari punti, lasciando uscire bianchi pezzi d’imbottitura.

Mentre J.D. era distratto, gli agenti all’ingresso avevano aperto in qualche modo una porta… quella all’estrema sinistra rispetto a loro, quella prevista per consentire l’accesso alle sedie a rotelle; forse la guardia della sicurezza del ROM aveva dato loro la chiave. Due agenti, al sicuro dietro scudi antisommossa, erano adesso nel vestibolo. La porta interna non aveva lucchetto, non ce n’era bisogno. Un agente allungò la mano e toccò il pulsante rosso che azionava la porta per i visitatori disabili. La porta si aprì lentamente. Gli agenti erano messi in rilievo dalla luce dei lampioni e dai lampeggianti dei loro veicoli in strada.

— Fermi dove siete! — gridò J.D. dall’altra parte della Rotonda, che separava dai poliziotti il nostro eterogeneo gruppetto. — Abbiamo degli ostaggi.

L’agente col megafono era ormai entrato, ma continuava a usare l’apparecchio. — Sappiamo che gli alieni non sono reali — disse e le sue parole echeggiarono nella cupola buia della Rotonda. — Alzate le mani e venite fuori.

J.D. agitò verso di me la mitraglietta. — Digli chi sei.

Con i miei polmoni era difficile gridare… portai le mani a coppa intorno alla bocca e cercai di fare del mio meglio. — Sono Thomas Jericho — gridai. — Un direttore del museo. — Indicai Christine. — Lei è Christine Dorati, responsabile del rom.

J.D. intervenne: — O ce ne andiamo tranquillamente o questi due muoiono.

I due agenti si acquattarono dietro gli scudi antisommossa. Si consultarono per qualche istante, poi si sentì di nuovo il megafono: — Cosa volete?

Perfino io capii che l’agente voleva guadagnare tempo. Cooter guardò prima la scala sud, che portava ai piani superiori, e poi la scala nord, che portava anche a quelli inferiori. Avrà pensato di avere scorto un movimento… forse era stato un topo: un grande e vecchio edificio come il museo ne ha in quantità. Cooter sparò un colpo giù verso la scala nord. Il proiettile colpì i gradini di pietra, schegge taglienti volarono per aria e…

Una di esse colpì Barbulkan, il secondo Forhilnor…

La bocca sinistra di Barbulkan emise una sorta di “ Ooof e la destra un “ Hup!”

Un garofano di sangue rosso vivo fiorì su una delle gambe e un lembo di pelle penzolò dal punto colpito dalla scheggia di pietra…

Cooter disse: — Sant’Iddio!

J.D. si girò ed esclamò: — Oh, Gesù!

A quanto pare, capirono tutto nello stesso momento. Gli alieni non erano proiezioni; non erano ologrammi.

Erano veri.

E all’improvviso i due si resero conto di avere i più preziosi ostaggi nella storia del mondo.

J.D. arretrò, spostandosi dietro il gruppo; si era accorto di non tenere sotto tiro i quattro alieni. — Siete tutti reali? — disse.

Gli alieni rimasero in silenzio. Sentii il cuore battermi forte. J.D. puntò la mitraglietta contro la gamba sinistra di un Wreed. — Una scarica ti farà saltare la gamba — disse. Lasciò un attimo di tempo perché la minaccia facesse effetto. — Te lo chiedo di nuovo. Siete tutti reali?

Rispose Hollus. — Sono reali. Siamo tutti reali.

J.D. sorrise, soddisfatto. Gridò ai poliziotti: — Gli alieni non sono proiezioni. Sono reali. Così abbiamo sei ostaggi! Voglio che vi ritiriate tutti. Al primo segno di trucchi, uccido un ostaggio… e non sarà un uomo.

— Non vorrai diventare un assassino! — gridò il poliziotto col megafono.

— Non commetterò nessun omicidio — replicò J.D. — L’omicidio è l’uccisione di un altro essere umano. Non troverete nessun capo di imputazione contro di me. Ora ritiratevi tutti, altrimenti gli alieni crepano.

— Un ostaggio vale quanto sei — disse il poliziotto. — Lasciane uscire cinque e discutiamo.

J.D. e Cooter si guardarono. Sei ostaggi erano davvero un gruppo ingombrante; avrebbero controllato meglio la situazione, se non avessero dovuto preoccuparsi di tutti e sei. D’altro canto, averne sei disposti in cerchio, con loro due al centro, sarebbe stata una protezione contro i cecchini che potevano sparare da una qualsiasi parte.

— Niente da fare — gridò J.D. — Voi sbirri… siete come la swat, giusto? Perciò siete venuti qui in un furgone o camioncino. Voglio che vi ritiriate, lontano dal museo, lasciando il furgone col motore acceso e le chiavi nel cruscotto. Andremo all’aeroporto, con tanti alieni quanti riterremo opportuno. Vogliamo che ci sia un aereo ad aspettarci, per andare… — esitò — be’, per andare dove decidiamo di andare.

— Non possiamo farlo — disse al megafono il poliziotto.

J.D. scrollò le spalle. — Ucciderò un ostaggio fra sessanta secondi, se siete ancora lì. — Si girò verso quello dai capelli a spazzola. — Cooter?

Cooter annuì, guardò l’orologio e iniziò a contare.

— Sessanta. Cinquantanove. Cinquantotto.

Il poliziotto col megafono si girò e parlò a qualcuno alle sue spalle. Lo vidi indicare, forse la direzione in cui gli agenti dovevano ritirarsi a piedi.

Hollus aveva smesso di muovere i peduncoli oculari e li teneva immobili, distanziati al massimo. L’avevo già vista comportarsi in quel modo, quando udiva qualcosa che la interessava. Qualsiasi cosa fosse, io non l’avevo ancora udita.

— Cinquantadue. Cinquantuno. Cinquanta.

I poliziotti già uscivano dal vestibolo, ma facevano un gran fracasso. Quello col megafono continuò a parlare.

— D’accordo — disse. — D’accordo. Ci ritiriamo. — La voce, amplificata, echeggiava nella Rotonda. — Ci allontaniamo.

Mi pareva che non fossero necessarie tante parole, ma…

Poi udii il rumore che aveva incuriosito Hollus: un debole rombo. L’ascensore, alla nostra sinistra, scendeva: qualcuno, dal piano inferiore, l’aveva chiamato. Il poliziotto si sforzava di coprire quel rumore.

— Quarantuno. Quaranta. Trentanove.

Era un suicidio, pensai, per chiunque fosse nella cabina; J.D, avrebbe sparato non appena le porte di metallo avessero iniziato ad aprirsi.

— Trentuno. Trenta. Ventinove.

— Ce ne andiamo — gridò il poliziotto. — Andiamo via.

Ora l’ascensore risaliva. Sopra la porta c’era una fila di spie luminose… 1,2,3… che indicavano a quale piano si trovava al momento la cabina. Rischiai un’occhiata. La 1 si era appena spenta e un istante dopo si accese la 2. Astuto! O l’occupante dell’ascensore sapeva dell’esistenza delle balconate del secondo piano prospicienti la Rotonda oppure era stato informato dalla stessa guardia di sicurezza che aveva fatto entrare la polizia.

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