I due agenti lasciarono la macchina nel piccolo parcheggio della Biblioteca di Legge Bora Laskin, sul lato sud del planetario, e raggiunsero a piedi il rom, entrando dalla porta principale; si avvicinarono a Raghubir Singh.
Rhonda mostrò rapidamente il distintivo e descrisse i due che cercavano.
— Sono già stati qui — disse Raghubir. — Alcuni giorni fa. Due americani con la cadenza del sud. Li ricordo perché uno dei due chiese dov’erano i Falsi del Burgess Shale. L’ho raccontato a mia moglie e lei ci ha riso molto.
Rhonda sospirò. — Be’, allora è poco probabile che ritornino. Però è la nostra unica pista. Daremo un’occhiata in giro, se per lei va bene.
— Certo — disse Raghubir. Avvertì per radio le altre guardie della sicurezza, in modo che si unissero alle ricerche.
Rhonda estrasse il cellulare. — Weir — disse. — Gli indiziati sono stati al rom la settimana scorsa; comunque diamo un’occhiata, nel caso che ci siano tornati. Però concentrerei le forze allo SkyDome e alla cbc.
Giunsi al museo verso le quattro e mezzo, entrai dall’ingresso riservato al personale e mi diressi all’esposizione Burgess Shale, solo per dare un’ultima occhiata e assicurarmi che tutto fosse in ordine prima dell’arrivo di Hollus e dei suoi.
Rhonda Weir e Hank Li si ritrovarono nella Rotonda alle 4.45. — Niente fortuna — disse Rhonda. — E tu?
Hank scosse la testa. — Mi ero dimenticato quant’è grande questo posto. Anche se fossero tornati, potrebbero trovarsi da qualsiasi parte.
— Nessuno dei miei li ha visti — disse Raghubir. — Un mucchio di visitatori porta il soprabito anche nel museo. Avevamo un guardaroba gratuito, prima dei tagli. — Si strinse nelle spalle. — Alla gente non piace pagare.
Rhonda guardò l’orologio. — È quasi l’ora di chiusura.
— Nei fine settimana l’ingresso per le scolaresche è chiuso — disse Raghubir. Indicò la fila di porte a vetri sotto le vetrate istoriate. — Dovranno uscire dalla porta principale.
Rhonda corrugò la fronte. — Probabilmente non sono nemmeno qui. Comunque, aspettiamo fuori e controlliamo se escono.
Hank annuì e i due agenti si diressero al vestibolo e alle porte a vetri. Pareva che stesse per piovere. Rhonda usò di nuovo il cellulare. — Aggiornamenti? — domandò.
La voce di un sergente: — Di sicuro non sono al centro della cbc.
— Punto sullo SkyDome — disse Rhonda.
— Anche noi.
— Veniamo lì. — Staccò la comunicazione. Hank guardò il cielo scuro. — Speriamo d’arrivare in tempo per veder chiudere il tetto dello stadio.
J.D. Ewell e Cooter Falsey erano appoggiati alla parete color salsa di pomodoro, nella Rotonda Inferiore; Falsey portava un berretto dei Toronto Blue Jays comprato il giorno prima, quando erano andati allo SkyDome a vedere la partita. Una voce registrata, con cadenza giamaicana, provenne dagli altoparlanti: “Signore e signori, il museo è chiuso. Tutti i visitatori sono pregati di raggiungere l’ingresso principale. Grazie per la visita e arrivederci. Signore e signori, il museo è chiuso. Tutti…”.
Falsey rivolse a Ewell un rapido sogghigno.
La sala proiezioni del rom aveva quattro doppie porte d’accesso, che spesso non venivano chiuse a chiave. Visitatori curiosi a volte sporgevano la testa, ma se non c’erano programmi in corso, vedevano solo un grande locale in penombra.
Ewell e Falsey aspettarono che la Rotonda Inferiore fosse vuota, poi scesero i nove scalini e raggiunsero la sala proiezioni. Rimasero fermi per qualche istante, per abituare gli occhi alla scarsa luce. La sala non aveva finestre, ma c’era ugualmente un po’ di luce: il bagliore rossastro del segnale uscita, la luce che filtrava sotto le porte, un grosso orologio analogico illuminato, sulla parete, sopra la porta, i led rossi dei rivelatori di fumo e il chiarore di un quadro di comando o chissà cosa, che usciva dalle cinque finestrelle del gabbiotto di proiezione posto sopra l’ingresso.
In precedenza, quello stesso giorno, Falsey ed Ewell erano rimasti seduti a guardare un film che pareva interminabile, su una piccola canoa di legno intagliato, con a bordo un indigeno canadese, in viaggio lungo vari corsi d’acqua. Non avevano prestato molta attenzione al film. Invece avevano esaminato la struttura della sala: la presenza di un palco di fronte allo schermo, il numero di file di poltroncine, la posizione dei passaggi e quella delle scalette che portavano al palco.
Ora percorsero rapidamente nel buio il passaggio di sinistra, in lieve pendenza; trovarono la scaletta del palco, salirono i gradini, scivolarono dietro il grande schermo appeso al soffitto e furono dietro le quinte.
Lì c’era più luce. Proveniva da uno stanzino da bagno: qualcuno aveva lasciato la luce accesa e la porta socchiusa. Dietro lo schermo c’erano diverse sedie spaiate e la solita confusione di attrezzi per l’illuminazione, sostegni per microfono, funi grosse come anaconda penzolanti dal soffitto e polvere in quantità.
Ewell si tolse la giacca, che era servita a tenere nascosta la mitraglietta. Stanco di portarsi dietro l’arma, la posò per terra e sì accomodò in una sedia.
Anche Falsey prese una sedia, intrecciò le dita sulla nuca, distese le gambe e si dispose ad aspettare pazientemente.
Erano le dieci di sera e il traffico, lì in centro, si era ridotto quasi a niente. La navetta dì Hollus calò in silenzio dal cielo e atterrò non davanti al planetario, come la prima volta, ma dietro il museo, lungo la Passeggiata del Filosofo, un tratto erboso che serpeggiava dal Varsity Stadium verso l’Hart House. Forse qualcuno aveva osservato l’atterraggio del veicolo spaziale, ma almeno la navetta non era in piena vista dalla via.
Christine Dorati aveva insistito per essere presente all’arrivo degli alieni. Avevamo discusso sul modo migliore per risolvere il problema sicurezza e avevamo concluso che la cosa più sensata era semplicemente starsene zitti: se avessimo chiesto il sostegno della polizia o dell’esercito, avremmo solo attirato la folla. Ormai solo un gruppetto di svitati bazzicava intorno al museo, ma a quell’ora della notte non si vedeva mai nessuno: era di dominio pubblico che Hollus e io facevamo orario d’ufficio.
Da quando Christine aveva tentato di sbattermi fuori, fra noi c’era una certa tensione; immaginavo però che, guardandomi, lei sapesse che in ogni caso la faccenda si sarebbe risolta presto. Continuavo a evitare gli specchi, ma vedevo le reazioni di chi aveva a che fare con me: i commenti forzati e insinceri sul mio aspetto, le strette di mano rapide e leggere per timore di rompermi qualche osso, l’involontario scuotere della testa di gente che, non avendomi visto da settimane, notava il mio stato attuale. Christine l’avrebbe avuta vinta fin troppo presto.
Fermi nel vicolo fra il rom e il planetario, osservammo la navetta atterrare; la Passeggiata del Filosofo non era la sorta di luogo dove fosse piacevole aggirarsi di notte. Hollus, un secondo Forhilnor e due Wreed emersero rapidamente dalla navetta nera a forma di cuneo. Hollus portava lo stesso indumento blu sfoggiato il giorno del nostro primo incontro; l’altro Forhilnor vestiva in nero e oro. I quattro alieni portavano parti di un’apparecchiatura che pareva assai complessa. Li salutai e li accompagnai in fretta nel vicolo e poi nel museo, entrando dall’ingresso del personale. Quell’ingresso era a livello della strada, ossia al pianterreno del museo (l’ingresso pubblico principale, con tutti quegli scalini esterni, portava in realtà al primo piano). Lì era di servizio una guardia, che leggeva una rivista invece di tenere d’occhio le immagini in bianco e nero delle telecamere della sicurezza.
— Meglio staccare gli allarmi — disse Christine alla guardia. — Se dobbiamo stare qui tutta la notte, sono sicura che gireremo in varie parti dell’edificio. — La guardia annuì e premette alcuni pulsanti sul quadro di comando.
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