1 ...6 7 8 10 11 12 ...19 “Io… vorrei davvero dirti no. Ma la verità è che non lo so. Non ho ancora deciso.” Si interruppe per un momento prima di chiederle: “Che cosa penseresti se lo facessi?”
“Vuoi la mia opinione?” domandò lei sorpresa.
“Sì, certo. Tu sei davvero una delle persone più intelligenti che conosca, e la tua opinione è molto importante per me.”
“Voglio dire… da una parte, è una bella cosa, sapendo quello che so ora…”
“Sapendo quello che credi di sapere,” la corresse Reid.
“Ma mi fa anche paura. So che ci sono buone possibilità che resti ferito, o… o peggio.” Maya rimase in silenzio per un po’. “Ti piace? Lavorare per loro?”
Reid non le rispose subito. Aveva ragione; quello che gli era successo era stato terrificante, e aveva messo in pericolo la sua vita più di una volta, oltre che quelle delle sue ragazze. Non avrebbe sopportato se fosse successo loro qualcosa. Ma la dura verità, e una delle maggiori ragioni per cui si era tenuto tanto impegnato di recente, era che gli era piaciuto , e che gli mancava. Kent Steele bramava la caccia. C’era stato un tempo, quando era ricominciato tutto, in cui aveva considerato quella parte di lui come una persona diversa, ma non era vero. Kent Steele era solo uno pseudonimo. Lui bramava la caccia. Gli mancava. Era una parte di Reid, proprio come insegnare e crescere le sue due figlie. Anche se aveva ancora i ricordi confusi, facevano parte di lui e della sua identità. Smettere del tutto sarebbe stato come quando un’incidente metteva fine alla carriera di una star dello sport, lasciandola a domandarsi: Chi sono, se non uno sportivo?
Non fu necessario rispondere alla sua domanda ad alta voce. Maya poté vederlo nel suo sguardo distante.
“Com’è che si chiama?” domandò la ragazza all’improvviso, cambiando argomento.
Reid sorrise imbarazzato. “Maria.”
“Maria,” ripeté lei pensierosa. “Va bene. Goditi l’appuntamento.” Poi tornò al piano di sotto.
Prima di seguirla, Reid ebbe un piccolo ripensamento. Aprì il primo cassetto del comò e frugò nel fondo fino a quando non trovò quello che stava cercando, una vecchia bottiglia di costosa colonia che non metteva da due anni. Era stata la preferita di Kate. Annusò il diffusore e sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Era un profumo familiare e muschiato che portò con sé un’ondata di bei ricordi.
Ne spruzzò un po’ sui polsi e se lo diede ai lati del collo. L’odore era più forte di quanto ricordasse, ma piacevole.
Poi… un altro ricordo gli lampeggiò davanti agli occhi.
La cucina in Virginia. Kate è arrabbiata, sta indicando qualcosa sul tavolo. Non è solo arrabbiata, è spaventata. “Perché hai una cosa del genere, Reid?” chiede in tono accusatorio. “E se una delle ragazze l’avesse trovata? Rispondimi!”
Allontanò la visione prima dell’arrivo dell’inevitabile emicrania, ma ciò non rese l’esperienza meno inquietante. Non riusciva a ricordare quando o perché fosse avvenuto quel litigio; lui e Kate avevano discusso di rado, e nel ricordo lei era sembrata spaventata. Doveva aver avuto paura di quello per cui stavano litigando, o forse persino di lui . Ma non le aveva mai dato motivo per temerlo. Almeno non che riuscisse a ricordare…
Gli tremarono le mani quando fu colpito da un nuovo pensiero. Non riusciva a ricordare l’evento, il che significava che doveva essere tra quelli soppressi dall’impianto che gli avevano messo nel cranio. Ma perché una memoria riguardante Kate era stata cancellata insieme all’agente Zero?
“Papà!” Maya lo chiamò dal fondo delle scale. “Arriverai in ritardo.”
“Sì,” borbottò. “Vengo.” Prima o poi doveva affrontare la realtà: o cercava una soluzione al suo problema, oppure quelle memorie occasionali avrebbero continuato a tornare alla superficie, confuse e scioccanti.
Ma ci avrebbe pensato più tardi. In quel momento aveva una promessa da mantenere.
Andò al piano di sotto, baciò entrambe le figlie sul capo e si diresse verso l’auto. Prima di attraversare il vialetto, si accertò che Maya avesse attivato l’allarme dietro di lui, e poi salì sul SUV argentato che aveva comprato un paio di settimane prima.
Anche se era molto nervoso ed emozionato di vedere di nuovo Maria, ancora non riusciva a liberarsi dalla stretta di panico nello stomaco. Non riusciva a evitare di pensare che lasciare da sole le figlie, anche se per poco, fosse una pessima idea. Se gli eventi del mese precedente gli avevano insegnato qualcosa, era che innanzitutto aveva moltissimi nemici che desideravano vederlo soffrire.
“Come si sente stasera, signore?” chiese educatamente l’infermiera del turno di notte entrando nella camera d’ospedale. Rais sapeva che si chiamava Elena ed era svizzera, anche se gli parlava in un inglese accentato. Era minuta e giovane, molti l’avrebbero definita persino attraente, ed era piuttosto allegra.
Rais non disse nulla in risposta. Non lo faceva mai. Si limitò a fissarla mentre lei appoggiava una tazza di plastica sul suo comodino e gli controllava con attenzione le ferite. Era consapevole che l’allegria serviva a compensare la paura. Era ovvio che non le piacesse stare in quella stanza insieme a lui, nonostante le due guardie armate alle sue spalle, che guardavano ogni sua mossa. Non era felice di curarlo, né di parlare con lui.
Nessuno lo era.
L’infermiera, Elena, ispezionò con cautela le sue ferite. Era ovvio che fosse nervosa standogli tanto vicina. Sapevano tutti che cosa aveva fatto, che aveva ucciso in nome di Amun.
Sarebbero molto più spaventati se sapessero quante persone ho ammazzato , pensò sarcastico.
“Sta guarendo bene,” gli stava dicendo. “Più velocemente del previsto.” Glielo ripeteva ogni sera, cosa che lui interpretava come un modo per dire: “Con un po’ di fortuna te ne andrai presto.”
Non erano buone notizie per Rais, perché quando finalmente fosse stato abbastanza in salute da andarsene, di certo sarebbe stato mandato in un orrendo e squallido buco scavato nella terra, una prigione segreta della CIA nel deserto, per subire nuovi strazi mentre lo torturavano per ottenere informazioni.
In quanto Amun, noi sopportiamo . Era stato il suo mantra per più di un decennio della sua vita, ma non era più così. Amun non esisteva più, per quanto ne sapeva; il piano a Davos era fallito, i suoi capi erano stati imprigionati o uccisi, e ogni organo di polizia al mondo sapeva del marchio, il glifo di Amun che i suoi membri si erano bruciati nella pelle. Rais non aveva il permesso di guardare la televisione, ma captava notizie dalle sue guardie armate, che chiacchieravano spesso (e a lungo, con sua grande irritazione).
Lui stesso si era tagliato via il marchio dalla pelle prima di essere portato all’ospedale a Sion, ma alla fine era stato tutto inutile; sapevano chi era e almeno una parte di ciò che aveva fatto. Nonostante ciò, l’irregolare cicatrice rosata sul braccio dove un tempo aveva avuto il marchio era un perpetuo ricordo che Amun non esisteva più, e quindi sembrava solo giusto che il mantra cambiasse.
Io sopporto.
Elena prese la tazza di plastica, piena di acqua fredda e con una cannuccia. “Vuole bere un po’?”
Rais non disse nulla, ma si sospinse in avanti e aprì le labbra. La donna guidò con cautela la cannuccia verso di lui, tenendo le braccia completamente estese, i gomiti rigidi e il corpo reclinato all’indietro. Era spaventata; quattro giorni prima l’assassino aveva tentato di mordere il dottor Gerber. Gli aveva solo graffiato il collo con i denti, non lo aveva nemmeno fatto sanguinare, ma il gesto gli aveva fatto ricevere un pugno alla mascella da una delle guardie.
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