Kate Wilhelm - La casa che usside

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La casa che usside: краткое содержание, описание и аннотация

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«Quei poveretti» disse Charlie con un sospiro, e Constance capì che stava pensando alla gente in città.

«Meglio stare qui» gli rispose.

Se non avesse fatto così caldo si sarebbe voltato per lanciarle una delle sue occhiate, ma non si prese nemmeno il disturbo di farlo. Questo era il risultato di una lunga convivenza, pensò. Ormai potevano parlarsi in codice o attraverso dei numeri e comprendersi alla perfezione. A volte Charlie aveva nostalgia della città. Ci era vissuto fino a quando, dopo venticinque anni di servizio prestato prima nel dipartimento antincendio e poi come investigatore di polizia, era andato in pensione. Per la maggior parte di quegli anni Constance aveva insegnato psicologia alla Columbia University. In giornate come quella erano soliti ritrovarsi dopo il lavoro, entrambi sfiniti e sfatti, e pianificare il giorno in cui avrebbero mollato tutto per trasferirsi in campagna dove il clima era fresco e gradevole. Bah! Charlie però sapeva bene come si stava in città in quel momento. Il ricordo di Manhattan durante l’afa di agosto era ancora fresco nella sua memoria: edifici surriscaldati, marciapiedi surriscaldati, l’odore del metallo bollente, gli animi surriscaldati. Dio, quei caseggiati! Preso dall’irrequietezza cominciò ad agitarsi tentando di allontanare i ricordi. New York ad agosto decisamente non gli mancava.

«Dopo che il tipo se ne sarà andato andiamo a mangiare qualcosa da Spirelli.»

«Forse dovremmo sederci a parlare qui fuori» suggerì Constance. «Si sta meglio che in casa.»

Charlie annuì. «Probabilmente non ci vorrà molto. Guarda.» Un altro gatto, Ashcan, aveva individuato Brutus che giocava a fare il morto e gli si stava avvicinando di soppiatto. Brutus lo avrebbe fatto a pezzi, pensò Charlie. Quando Ashcan fu più vicino Brutus aprì gli occhi giallastri, fulminò con lo sguardo il mite gatto grigio e li richiuse. Ashcan cominciò a pulirsi la coda.

«Hai già dato un’occhiata a tutte quelle cose che ha mandato?»

«Non c’è un granché. Una casa computerizzata è impazzita e ha ucciso un paio di persone. Il caso è chiuso. È evidente che è stata la casa, non c’è ombra di dubbio.»

Milton Sweetwater aveva chiesto un appuntamento per discuterne, pensò Constance, sentendosi quasi dispiaciuta per lui nonostante fosse un estraneo. Quando si trattava di computer, Charlie si trasformava in un forcaiolo: prima la sentenza e poi, casomai, le domande. Per due settimane Charlie aveva dato battaglia alla società telefonica per un errore sulla bolletta. "Fatemi parlare con una persona!" aveva urlato al telefono esasperato. Poi aveva sbattuto giù la cornetta e aveva guardato Constance con un’espressione affranta.

"Cos’è successo?" gli aveva chiesto Constance.

"Era un computer che fingeva di essere una persona" le aveva risposto quasi in un sussurro. "Mio Dio, si spacciava per un essere umano!"

Milton Sweetwater si tolse la giacca senza esitazioni. La porse a Constance con un’espressione piena di gratitudine, la seguì sulla terrazza e strinse la mano a Charlie secondo un rituale tipico degli uomini che imponeva loro di scrutarsi attentamente. Accettò una birra e si sedette. "Gran bell’uomo" pensò Constance. "Ha un’aria da star del cinema, ricorda Gregory Peck." Ovviamente, così come Constance, anche lui li stava studiando. Charlie invece, pensò Constance, non le era affatto d’aiuto.

«Giornata calda per viaggiare» esordì Charlie. Milton Sweetwater ne convenne dopodiché calò il silenzio.

D’un tratto l’uomo rise e si lasciò andare contro lo schienale della sedia cominciando a rilassarsi. Fino a quel momento Constance non si era resa minimamente conto che fosse teso.

«Ho avuto il suo nome da Ralph Wedekind» spiegò, e bevve avidamente la birra. Il bicchiere era talmente coperto di condensa che quando lo prese in mano gli sgocciolò addosso tutta l’acqua. «A dire il vero ho tre nominativi. Ho già parlato col primo ma non mi è piaciuto. Lei è il secondo. Se non accetterà l’incarico contatterò una terza persona che si trova a New York. Stavo per scartarla per avermi fatto arrivare fin qui a casa sua anziché venire lei in città, ma dopo un paio di giorni a New York sono il primo ad ammettere che bisogna essere pazzi per vivere in quel posto, e l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno a Smart House è un investigatore pazzo.»

«Perché un investigatore di New York?» domandò pigramente Charlie.

«Non ci interessa da dove viene la persona che lavorerà per noi, purché sia in gamba e con buone referenze. Wedekind l’ha raccomandata caldamente ed è per questo che sono qui.»

«È stato il computer a uccidere quei due uomini?» domandò Charlie senza mostrare un vero interesse.

«Naturalmente no, ma gli azionisti si trovano in un guaio. Ci sono già state tre riunioni e nessuno sa esattamente in che direzione muoversi, cosa fare. La società ha subito un crollo finanziario e psicologicamente la dirigenza è in uno stato di confusione. Beth Elringer grida all’omicidio, e suo cognato chiede a gran voce che si passi all’azione. È un vero disastro.»

Charlie sospirò e si versò dell’altra birra. «Ho letto la rassegna stampa che mi ha mandato. Cos’altro c’è da sapere? Gli articoli erano esaurienti?»

«Non del tutto» rispose Milton Sweetwater dopo una pausa quasi impercettibile, come se in quel breve lasso di tempo fosse giunto a una decisione. «Possiamo dare per scontato che il nostro incontro di oggi sia confidenziale; a prescindere dal fatto che lei accetti o meno l’incarico?»

Charlie fece un gesto con la mano. «Per noi è una prassi.»

Milton Sweetwater si sporse in avanti. «C’è una parte considerevole di quel fine settimana di cui abbiamo ritenuto di non parlare né alla stampa né alla polizia. Non credo abbia rilevanza, ma nell’ultima nostra riunione abbiamo deciso di raccontare tutto all’investigatore che avremmo assunto, e iniziare le indagini da lì.»

Charlie annuì, poi guardò nuovamente i gatti sotto il cespuglio di lillà. Le foglie del cespuglio erano tristemente afflosciate e i gatti sembravano morti. A Charlie si strinse il cuore.

«C’è qualcosa che deve sapere riguardo Gary Elringer e la società, altrimenti quel fine settimana le sembrerà totalmente assurdo» cominciò a dire Milton. «Gary era un genio. Immagino che gli articoli di giornale abbiano approfondito questo aspetto. Si costruì il primo computer prima di compiere dieci anni, andò a Stanford a quindici, si laureò a venti potendo già vantare una mezza dozzina di innovazioni o di vere e proprie invenzioni e scoperte. Aveva depositato decine di brevetti prima ancora di compiere l’età per bere alcolici. Aveva anche una personalità difficile. Viziatissimo prima da bambino e poi da adulto, era piuttosto paffuto, aveva il tatto di un elefante, era collerico, si prendeva tutto ciò che voleva e generalmente rendeva infelici le persone che gli stavano accanto. All’università incontrò Beth MacNair, una ragazza timida, assai brillante e fisicamente poco procace. In qualche modo si trovarono in sintonia e si sposarono. Questo accadde dieci anni fa. Nel frattempo Bruce Elringer, il fratello di Gary, aveva messo a punto un programma per comporre musica al computer, qualcosa di rivoluzionario, e decisero di fondare la Bellringer Company. Potevano contare su un hardware e numerosi software da utilizzare con un nuovo tipo di computer. Gary aveva già guadagnato un sacco di soldi, non abbastanza, ma molti. Coinvolsero nei loro progetti alcune altre persone tra cui me, e lanciammo la Bellringer Company Incorporated. Tutto cominciò otto anni fa e fu un successo spettacolare fin dall’inizio.»

L’uomo terminò la birra e sollevò la bottiglia per leggere l’etichetta.

«È una marca locale» spiegò Charlie. Entrò in casa e ritornò con altre due bottiglie. Constance invece beveva del tè freddo, consumava birra solo con il cibo messicano. Charlie cominciò a pensare alla cucina messicana, al maiale con salsa verde, ai petti di pollo con peperoncino rosso e salsa alla panna…

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