«Ma siete già entrati. Perché il dottor Boehlinger aveva violato una proprietà privata. L’evidenza di un reato vi ha dato il diritto di farlo. Una volta entrati avete arrestato un presunto reo e allora avete notato qualcosa. Terra scavata di recente.»
«Oh, andiamo», protestò Forbes. «Così ci sta mettendo con il cu… ci sta mettendo in una posizione antipatica.»
«Va bene», si arrese Petra. «Ma io dovrò mettere questa storia per iscritto per il mio capo e potete scommettere che la prima cosa che farà Boehlinger appena tornato a casa sarà contattare la stampa. È un giochetto che gli riesce bene.»
Forbes imprecò sottovoce.
«Chiamiamo l’ufficio, Chick», propose Beckel.
«Sì», convenne subito Forbes. «Chiamo il mio principale.»
Quando tornò alla sua automobile, Petra trovò Boehlinger seduto sul sedile posteriore a discorrere animatamente con Ron. Occhi asciutti, ancora teso, ma con la voce a un volume normale. Ron lo ascoltava con attenzione e annuiva. Boehlinger sorrise. Ron ricambiò. «Interessante», disse.
«Estremamente interessante», replicò Boehlinger.
Petra si sedette al volante.
«Allora?» volle sapere Boehlinger.
«Gli ho detto che secondo me fanno bene a prenderla sul serio, dottore. Stanno consultando i loro superiori.»
«Nel loro caso», puntualizzò Boehlinger, «sarebbe come dire quasi il mondo intero.»
Petra non riuscì a trattenersi. Rise.
«Dottore?» lo richiamò Ron in tono di sollecitazione.
Boehlinger si schiarì la gola. «Detective Connor, voglio chiederle scusa per tutto quello che ho detto prima.»
«Non è necessario, dottore.»
«Invece lo è. Sono stato peggio che maleducato. Ma… ma non ha idea di che cosa significhi perdere tutto.»
«Vero», ammise Petra. A un tratto immaginò Kathy Bishop sotto il bisturi. Era quasi mezzogiorno, probabilmente Kathy era uscita dalla sala operatoria con il petto ricucito. Quanto di lei le avevano portato via? Si ripromise di chiamare l’ospedale al più presto.
«Dunque mi dica, dottore», riprese Ron. «Quelle autopsie a cui ha accennato, rientravano nei suoi compiti di primario del pronto soccorso o erano consulenze speciali?»
«È stato anni fa, Ron», rispose in tono malinconico Boehlinger. Ron? «Quando ero aiuto. Decisi di occuparmi di patologia legale e trascorsi un periodo alle dipendenze del coroner di St. Louis. Giorni incredibili, l’obitorio a quei tempi era un autentico…»
Un uomo nuovo. Dottor Banks, provetto psicologo.
Un fruscio richiamò il suo sguardo al finestrino. I grandi piedi di Forbes grattavano l’asfalto. «Va bene», le comunicò, guardando lei ed evitando Boehlinger. «Il capo viene qui. Poi daremo un’occhiata a questa cosiddetta fossa.»
Il capitano Sepulveda era un individuo massiccio sui quarantacinque, capelli argentati, pelle color scamosciato e uniforme impeccabile. Arrivò su un veicolo senza contrassegni con un terzo aiutante, entrò da solo nella proprietà di Ramsey e ne emerse qualche momento più tardi ordinando agli altri tre di seguirlo.
Petra, Ron e Boehlinger attesero seduti in macchina ad ascoltare il chirurgo raccontare della scuola di medicina, la laurea con il voto più alto del suo corso, i molteplici trionfi ottenuti al pronto soccorso.
Venti minuti dopo ricomparve Sepulveda con macchie di terra sulla camicia, intento a sfregarsi le mani. Pochi passi atletici lo portarono al fianco di Petra. I suoi occhi erano feritoie, così sottili che Petra si domandava come riuscisse a vedere.
«Sembra che abbiamo un cadavere. Femmina, sepolta a un metro e mezzo di profondità. Larve di mosche, tracce di deterioramento, ma molto tessuto ancora integro, quindi sono passati giorni, non settimane.»
«Forse due giorni», disse Petra, pensando: lo scambio delle macchine serviva solo a coprire la sortita di Balch? «Tratti ispanici? Anziana? Sotto il metro e sessanta? Fra i sessanta e i settanta chilogrammi?»
Le feritoie si arricciarono agli angoli. «La conosce?»
«Credo di sì. Forse le conviene cercare anche su quella Lexus nera.»
«Cercare che cosa?»
«Sangue.»
Dormire sotto un tetto è bellissimo. All’inizio mi sono svegliato a tutte le ore, poi mi è passata.
Le coperte marrone che mi ha portato Sam sono ruvide, ma tengono caldo. Le lenzuola e i guanciali sanno di vecchio. Prima di spegnere le luci sono rimasto un po’ a guardare il soffitto della shul nella luce rossa della lampadina davanti all’arca. Sam non mi ha mai detto di non dormire nella shul , ma a me è sembrato poco rispettoso, così mi sono sistemato per terra vicino alla porta sul retro, di fianco al bagno. Ogni tanto sentivo il rumore di un’automobile che percorreva il vicolo e una volta ho sentito dei passi, probabilmente qualche pescatore di cassonetti, e per qualche secondo ho smesso di respirare, ma non era niente.
Credo di essermi addormentato fissando la lampadina rossa. Sam mi ha detto che non si spegne, è qualcosa come una luce eterna che serve a ricordare Dio agli ebrei. Poi ha riso e mi ha detto: «Sarebbe bello se fosse vero, eh, Bill? Quella lampadina salta ogni due o tre mesi e io mi devo arrampicare su una scala a rischio della vita».
Mi ha lasciato un panino e se n’è andato chiudendo a chiave.
Sono le 5.49 e sono in piedi da dieci minuti. Vedo rischiararsi le finestre a vetri colorati della facciata. Vorrei uscire a dare un’occhiata all’oceano, ma non ho la chiave per aprire la porta principale. Scuoto coperte e lenzuola, mi lavo in bagno e finisco il pezzo di panino che ho avanzato ieri sera. Poi apro appena appena la porta dietro e guardo fuori.
L’aria è fresca, anche fredda, volendo, piena zeppa di sale. Il vicolo è deserto. Esco e giro intorno alla sinagoga, dalla parte dove c’è la promenade. Non c’è in giro nessuno, solo gabbiani e piccioni. L’oceano è grigio scuro con qualche macchia di luce qua e là, come lentiggini arancio-rosa. Le onde vengono a riva molto adagio, poi rotolano all’indietro come se qualcuno avesse inclinato la terra, avanti e indietro, un viavai ritmico di sciacquio. Mi viene in mente una cosa che ho visto una volta in TV: cercatori d’oro che setacciano acqua di fiume. Dio inclina tutto il pianeta alla ricerca di qualcosa di prezioso.
Sto lì a guardare e ascoltare. Poi penso a quella donna al parco che non vedrà mai più l’oceano.
Chiudo gli occhi, stringo forte e soffio via quei pensieri.
Penso all’oceano, l’aria, l’odore di salmastro, un odore che mi piace. La fine del mondo è qui, più in là non si può scappare. Ci sono dei rifiuti sulla passeggiata, carte e bottiglie di birra e lattine, ma è tutto bellissimo lo stesso. Tranquillo e deserto e bellissimo. Non una sola persona in vista.
Mi piacerà sempre essere solo.
Ora il cielo dietro di me comincia a diventare più luminoso e la pelle del braccio mi si indora e vedo il sole, sta sorgendo, gigadontico e giallo tuorlo. Il caldo non lo sento ancora, ma con un sole così grande so che arriverà.
Adesso non sono più solo. A sud, forse a un isolato di distanza, vedo uno che arriva verso di me sui pattini a rotelle, in costume da bagno, con le braccia distese come se stesse cercando di decollare.
Mi ha sciupato la scena. Torno alla shul.
C’è la Lincoln di Sam, parcheggiata tutta storta come al solito; e lo trovo dentro a guardare un libro.
«Buongiorno», dico.
Lui si gira svelto, richiude il libro. Non ha l’aria contenta. «Dov’eri?»
«Fuori.»
«Fuori?»
«A guardare l’oceano.»
«L’oceano.» Perché ripete tutto quello che dico? Posa il libro, viene verso di me e per un secondo penso che voglia darmele e sono pronto a difendermi, ma lui prosegue e va a controllare che la porta sul retro sia chiusa a chiave, ci appoggia la schiena contro, davvero scontento.
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