Era stato lui a mettercelo? Era stato Kravitz? Si sforzò di ricordare, dannata memoria… l’ultimo shabbos… sì, sì, la signora Rosen non si era sentita bene e Sam era uscito prima del solito per riaccompagnarla a casa, aveva lasciato chiudere a Kravitz. Così sbadato, quell’uomo.
Prese lo scialle di lana e si accorse che Kravitz non lo aveva nemmeno ripiegato a dovere. Un klutz. Aveva lavorato una vita intera al dipartimento delle Acque e che cosa ti puoi aspettare da un mezzemaniche?
Sam ripiegò lo scialle, ne accarezzò la lana spessa e lo portò alla pedana, dove si chinò per aprire il vano.
Dentro c’era un bambino.
Piccolo, pelle e ossa, raggomitolato in un angolo, mezzo morto di paura.
Fiato corto. Sam vide il suo petto alzarsi e riabbassarsi e poi lo sentì, un rantolo roco e concitato come un attacco d’asma.
E quell’espressione.
Sam la conosceva bene. La sua famiglia, i volti ai finestrini del treno.
I prigionieri al campo che non ce la facevano.
Persino la faccia del coriaceo Emil quella volta che si era ammalato di polmonite; aveva creduto di essere spacciato.
La sua stessa faccia quando, nel pieno dell’inverno, aveva trovato un pezzo di vetro nella neve e lo aveva usato come specchio, per guardare come si era ridotto.
Esattamente così era l’espressione del bambino.
«È tutto a posto», disse.
Il bambino rabbrividì. Si stringeva il corpo come se avesse freddo e anche se era giugno, in California, una splendida giornata di sole, Sam si sentì percorrere da un gelido alito ucraino.
«È tutto a posto», ripeté. «Vieni fuori, non mordo.»
Il bambino non si mosse.
«Coraggio, non puoi restare lì tutto il giorno. Hai ancora fame? Non basteranno i cracker, andiamo a prenderti qualcosa di più nutriente.»
Ci volle del tempo per persuadere il bambino a uscire dal suo nascondiglio, dovette indietreggiare abbastanza da lasciargli tutto lo spazio. Quando fu finalmente fuori, si vedeva che avrebbe voluto scappare.
Sam lo trattenne per un braccio, un ossicino rivestito di pelle. Altri ricordi.
Il bambino si divincolò, cercò di scalciare. Sapendo come ci si sentiva a essere trattenuti, Sam lo lasciò andare e il bambino si precipitò verso la porta.
La scrollò, ma era sprangata.
Tornò nel tempio, si tenne alla larga da Sam. Occhi sgranati, che guizzavano a destra e a sinistra alia ricerca di una via di fuga.
Sam era seduto in prima fila con una scatola di ciambelle che il bambino non aveva trovato. Veri chazerei. Ciambelle di pasticceria ricoperte di cioccolato, una scatola ancora sigillata, nascosta dietro a vecchi libri di preghiere. Le scorte segrete di Kravitz. E chi voleva abbindolare? Accanto alle ciambelle c’era anche un vasetto di gefilte , polpettine di pesce in gelatina. Sam non credeva che avrebbero stimolato l’appetito del bambino.
«Qui», gli disse mostrandogli le ciambelle. «Prendile.»
Il bambino rimase immobile a fissarlo. Era sporco e sbrindellato e magro come un chiodo, con la faccia tutta piena di graffi, ma era lo stesso un bel bambino. Sugli undici, dodici anni. Che cosa faceva in giro un ragazzino di quell’età? C’erano molti fuggiaschi a Venice, ma soprattutto adolescenti, giovani ribelli, con il corpo intero pieno di spille e anelli, acconciature pazzesche, tatuaggi, aria torva. Quello era e sembrava solo un bambino denutrito e spaventato.
Senza dubbio goyische : guarda quel nasino all’insù, i capelli color biondo spento. Certi goyim picchiavano i loro figli, abusavano di loro, Dio solo sapeva che cos’altro. Forse quello era stato costretto a scappare. Era presumibile che accadesse anche agli ebrei, anche se a lui personalmente non risultava.
Ma che cosa sapeva lui di bambini?
Emil aveva un figlio, un avvocato, che viveva a Encino (con una macchina tedesca!), non parlava mai né ai genitori né allo zio.
«Qui», ripeté scuotendo la scatola. «Prendila.»
Niente. Il ragazzino non si fidava, pensava che fosse un tranello. Macchie di terra sui jeans e una T-shirt piena di buchi. Serrava i pugni, il fiero marmocchio.
Sam posò la scatola per terra e si alzò. «Va bene, ti apro la porta, così non sei costretto a passare dalla finestra. Ma se chiedi a me, ti conviene trovarti degli abiti puliti e mangiare del buon cibo ricco di vitamine.»
Si sfilò il portafogli dalla tasca e prese due banconote da venti. Un po’ troppo generoso con un piccolo sconosciuto, ma pazienza.
Posò i soldi di fianco alla scatola, andò in fondo al tempio e aprì la porta secondaria. Poi si trasferì in bagno per offrire al bambino la possibilità di un’uscita dignitosa. E perché la vescica lo stava facendo ammattire.
Petra fissò la porta attraverso la quale era appena uscito Stu, poi si alzò per seguirlo.
Lui riapparve sulla soglia prima che lei ci arrivasse. Con la testa inclinata.
Vieni qui.
Sicuro, la tua fedele, piccola ancella che ubbidisce a bacchetta.
Si guardarono negli occhi. Il suo volto era di pietra, niente scuse. Decidendo di preservare la propria dignità, Petra lo seguì giù per le scale e fuori dall’edificio, nel parcheggio sul retro, dove aveva lasciato il suo Suburban. Non era immacolato come al solito, aveva i finestrini sporchi ed escrementi di uccelli sul cofano bianco.
«Cosa diavolo c’è, Stu?» lo affrontò.
Lui aprì lo sportello del passeggero, le fece cenno di entrare, girò intorno al camioncino e si sedette al volante.
«Non andiamo da nessuna parte», lo ammonì lei rimanendo giù. «Qui c’è qualcuno che deve lavorare.»
Lui fissò lo sguardo attraverso il parabrezza. Il sole gli ricalcava il profilo in arancione. Un modello per la copertina di un tascabile non avrebbe potuto posare meglio. L’attore consumato.
Petra salì e chiuse lo sportello con forza abbastanza da far dondolare tutto il veicolo.
«Ti devo una spiegazione», disse Stu.
«Va bene.»
«Kathy è malata di cancro.»
Un nodo serrò la gola a Petra e quasi non riuscì a respirare.
«Oh, Stu…»
Lui alzò un dito. «La operano domani. Le hanno fatto delle analisi. Non eravamo sicuri. Ora lo siamo.»
«Mi dispiace, Stu.» Perché non me l’hai detto? Non abbastanza intimi, evidentemente. Otto mesi a correre dietro ai cattivi non bastano a consolidare un rapporto.
«Un seno solo», continuò lui. «Se n’è accorto il suo dottore durante una visita. Pensano che sia un tumore isolato.»
«Che cosa posso fare?»
«Niente, grazie, è tutto sistemato. Mia madre prende i bambini e mio padre si occupa dell’ospedale.»
Appoggiò il braccio destro sulla console. Petra gli posò la mano sulla manica. «Va’ a casa, Stu. Pensiamo a tutto io e Wil.»
«No, è questo il punto. Pensavo di prendere un permesso, ma Kathy non ne ha voluto sentir parlare. Mi vuole a casa questa sera per accompagnarla all’ospedale, mi ha detto che posso restare fino a quando si addormenta. E domani, quando uscirà dalla sala operatoria, sarò lì. Ma per il resto del tempo vuole assolutamente che io continui a lavorare. Anche quando comincerà la radioterapia… Forse potranno limitarsi a un’asportazione parziale, ancora non sanno.»
«Hai intenzione di mantenere il posto?» domandò Petra.
«Così vuole Kathy. La conosci.»
Petra la conosceva molto poco. Dolce, graziosa, efficiente, supermamma, mai senza trucco. Reginetta del ballo di fine d’anno al liceo, con credenziali da insegnante che non aveva mai utilizzato. Durante le uscite di famiglia, Petra aveva riconosciuto in lei la superorganizzatrice.
Un po’ riservata… siamo onesti, più che riservata. Dietro una cortesia solo superficiale, aveva sempre mantenuto le distanze e Petra l’aveva considerata gelida.
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