Michael Palmer - Sindrome atipica

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Sindrome atipica: краткое содержание, описание и аннотация

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Il dottor Rutledge ha la certezza che ci sia qualcosa di sospetto nelle morti dei suoi pazienti. Troppe banali influenze degenerate in incomprensibili complicanze non hanno lasciato scampo ai malati. L’uomo nutre un sospetto: che nell’evoluzione fatale delle malattie sia coinvolto il giacimento di carbone, la cui aria nera copre il cielo della sua città, nel West Virginia. Ma presto il dottore capisce che le sue indagini lo stanno portando a scoprire segreti molto più pericolosi di quanto potesse immaginare.

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«Su, solleva la lingua», le ordinò Matt. «Voglio misurarti la febbre.»

«Voglio dormire, ho bisogno di dormire.»

«Lo so, ancora un minuto.»

Matt infilò il termometro digitale sotto la lingua: 38,5. Prese lo stetoscopio e le auscultò torace e schiena: alcuni crepitìi indicavano una leggera polmonite, ma nulla che necessitasse di cure immediate.

«Salta su», mormorò Nikki. «Mi hai salvato la vita due volte in due giorni. Questo vuol dire che non devi dormire sul pavimento.»

«Cercherò di non scalciare troppo.» Matt spense la luce, ma un po’ di luminosità filtrava attraverso le tende sottili come garza. Si mise sulla schiena vicino a lei e tirò le lenzuola e la sottile coperta su entrambi. «Sai», continuò, «non ho fatto che cercare di immaginare come Kathy possa essere rimasta esposta alle tossine della miniera. Potrebbe essersi trovata nel posto sbagliato nel momento di una fuoriuscita particolarmente densa. Forse anche gli altri due casi si trovavano là proprio in quel momento. Pensi sia possibile?… Nikki?»

Aveva gli occhi chiusi e respirava in modo affannato ma regolare. Aveva resistito il più tenacemente e il più a lungo possibile.

Matt si girò sul fianco e, per un po’, osservò il suo viso nella fioca luminescenza, inspirando il suo profumo.

«Buonanotte, amica mia», sussurrò infine. «Te lo prometto, la prossima volta andiamo in un bel museo tranquillo.»

«Ecco un’altra contrazione.»

«Sto bene… Sto bene, Donny… è passata. Bazzecole… bazzecole… è passata.»

Amici e parenti le avevano detto quanto sarebbe stato duro. Quanto doloroso. L’infermiera responsabile del corso per puerpere aveva iniziato la lezione sul travaglio e il parto dicendo: «Chi l’ha chiamato travaglio, l’aveva chiaramente sperimentato».

Sherrie Cleary, dopo nove ore di doloroso travaglio, concentrò i suoi pensieri su tutti i discorsi apocalittici e pessimistici che aveva sentito e sorrise. Certo, le contrazioni facevano male. A volte, un male d’inferno. Ma il dolore era solo quello, si ripeteva di continuo, niente di più, e lei ancora resisteva. A ventisei anni, questo era il primo figlio e non sarebbe stato l’unico. Suo marito, Don, che lavorava in una carrozzeria, aveva ottenuto un buon aumento di stipendio e lei, grazie a una gravidanza senza problemi, aveva potuto continuare il suo lavoro di cameriera fino a tre settimane fa. Vivevano ancora nel quartiere di case popolari Anacostia, ma quelli di Fannie Mae (Federal National Mortgage Association) pensavano che entro poco lei e Don avrebbero avuto i requisiti per ottenere un’ipoteca. Qualcuno poteva forse biasimare il suo desiderio di avere altri figli?

Margie Briscoe, la levatrice, entrò nella sala parto, controllò il monitor del bebè, quindi si avvicinò al capezzale.

«Tutto bene», confermò. «Come te la stai cavando, Sher?»

«Sopporto le contrazioni, almeno per ora, ma sto perdendo la pazienza.»

«Non saresti normale se non fosse così. Su, fatti visitare. Rilassati e lascia cadere di lato le ginocchia… Perfetto… Sei anche ben distesa. Grazie a tutta la preparazione che hai fatto, non credo che dovremo fare una episiotomia.»

«Fantastico.»

«Non durerà ancora molto, mia cara.»

«Bene.»

«Sei sempre decisa a chiamarla Donelle?»

«Donelle Elizabeth Cleary. Se fosse stato un maschietto l’avremmo chiamato Donald Junior. Elizabeth è il nome di mia nonna.»

«Un nome bellissimo.»

«Sarà una bellissima bambina. Oh, Donny, eccone un’altra… Mio Dio… Oh, questa è peggiore della altre… No, aspetta… Oh, Signore, fa’ che sia molto peggiore… Oh!»

Margie pose le mani sulla pietra, grossa come una palla da pallavolo, che era l’utero che si contraeva di Sherrie e fissò il monitor che rivelò solo il previsto rallentamento del battito cardiaco fetale. Un minuto, due, tre. Sherrie continuava a gemere e ad ansimare.

«Io… non… so… se… posso… Aspetta, aspetta, sta andando un po’ meglio. Sta scomparendo. Oh, mio Dio…»

«La contrazione tornerà subito», esclamò Margie, «perché sta accadendo! La piccola Donelle sta per arrivare. Don, per favore, chiama Sue e dille che è ora. Sherrie, ti massaggerò un po’ la pelle per distenderla e aiutare la piccola a uscire… Brava. Ce l’hai fatta, Sher. Sei arrivata fino in fondo senza farmaci. Continua a respirare rapidamente e preparati a spingere. Tutti, al loro posto? Sue, il pediatra sta arrivando?… Fantastico. Don, infilati questi guanti, vieni qui e prendi il mio posto. Io resto vicina a te. Farai nascere tu questa bambina. Pronto?»

«Io… io credo di sì.»

«Sarai bravissimo. Sherrie, preparati a spingere. Ecco, sta uscendo la testa. Spingi, Sherrie, spingi!… Eccola qui, Don. Prima la testa, ora tirerò fuori una spalla. L’hai afferrata?… Bene! Ora l’altra spalla, ed eccola qui. Bellissima. Proprio splendida. Le ventuno e quindici. Sue, aspirazione, per favore.»

Le urla piagnucolose di Donelle Elizabeth Cleary riempirono la sala parto. Don Cleary, che aveva il fisico muscoloso e lo stoicismo di uno scaricatore portuale, stava piangendo quando l’infermiera prese sua figlia, l’avvolse e la depose sul petto di Sherrie, che era raggiante come il sole di mezzogiorno, le guance solcate da lacrime.

«Ve l’avevo detto», disse a tatti e a nessuno in particolare. «Ve l’avevo detto che sarebbe stata una cosa incredibile.»

Tre ore dopo, quando Sue entrò nella sua stanza, Sherrie stava dormicchiando, ma sorrideva ancora. Suo marito, seduto davanti alla culla di vimini, fissava, colmo di soggezione, la perfezione che era sua figlia.

«Sherrie, tesoro, svegliati», le intimò dolcemente Sue. «C’è qualcuno per te, una persona molto speciale. Ecco, ti passo sul viso un panno freddo. Bene. Sei sveglia?»

«Sono sveglia. Che succede?»

«Signor Cleary, è sveglio?»

«Certo. Chi c’è?»

«Ve lo direi, ma credo che dovrete scoprirlo da soli.» Corse alla porta e gridò: «Sono pronti».

La moglie del presidente degli Stati Uniti, da sola, entrò nella stanza e si diresse subito da Sherrie. L’espressione sui volti di Sherrie e Don fece capire che non era necessaria alcuna presentazione.

«Signora Cleary», si presentò ugualmente la visitatrice, «sono Lynette Marquand. Congratulazioni per la sua splendida bambina. Anche a lei, signor Cleary.»

«Grazie», riuscì a dire Sherrie. «Grazie. Sono realmente sorpresa.»

«È un piacere per me essere qui in questa occasione tanto gioiosa», ribatté Lynette. «Signor Cleary, signora Cleary, ho delle splendide notizie per voi.»

23

L’ambasciata della Sierra Leone a Washington si trovava sulla Diciannovesima Strada, non lontana dagli uffici del PAVE. Un tempo signorile villa di città, ora era caduta in rovina. Tendaggi e tappeti di scarso valore e un condizionamento d’aria costituito di elementi applicati qua e là alle finestre, alcuni dei quali neppure funzionavano. Ellen era già stata in altre ambasciate, come quelle del Canada, del Messico o della Francia, ma nessuna era tanto antiquata e malridotta come questa.

Era arrivata in orario, ma dal torpore del giovane addetto alla ricezione seduto dietro il bancone, aveva capito che avrebbe incontrato sua eccellenza Andrew Strawbridge quando sarebbe capitato. Nell’anticamera, sei indefinibili sedie in legno dallo schienale diritto, tre lunghi tavoli e niente da leggere, a parte parecchie copie di un vecchio opuscolo di propaganda che decantava i meriti della Sierra Leone e una copia del Time letta e riletta. Era una fortuna che l’ambasciatore non potesse riceverla subito, aveva pensato Ellen. Aveva bisogno di un po’ di tempo per calmarsi e concentrarsi. In quel momento c’era qualcuno che stava rimuovendo dalla sua mente sia la febbre di Lassa sia l’Omnivax, e cioè Rudy Peterson.

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