Robin Cook - Vite in pericolo

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Un’agghiacciante incursione nel lato più oscuro dell’assistenza sanitaria, nel fatidico incrocio tra il valore supremo dell’esistenza umana e i cinici interessi del mondo finanziario, capace di subordinare la vita e la morte alla pericolosa seduzione del denaro. Dopo lunghi anni trascorsi nei corridoi di un grande ospedale di Boston, Angela e David Wilson, un’affiatata coppia di medici, decidono di abbandonare la frenesia della metropoli per trasferirsi, con la figlioletta Nikki gracile e malata, in campagna, in una tranquilla cittadina del Vermont. La bellezza e la serenità del luogo, insieme all’affettuosa accoglienza dei suoi abitanti, appaiono un sogno divenuto realtà, destinato a infondere un’ondata di entusiasmo alle loro esistenze: verdi distese di prati, laghi cristallini incastonati in una cornice incantevole di montagne, al posto dell’inquinamento e della criminalità della città. E, nello stesso tempo, si profila per entrambi i coniugi la possibilità di lavorare in un centro gestito in modo dinamico e moderno, dotato di attrezzature all’avanguardia. Ma dopo il primo magnifico, romantico autunno, a Bartlet comincia a profilarsi un paesaggio spoglio e desolato, che rivela, dietro i tristi scheletri degli alberi, oscure e macabre macchinazioni...
A poco a poco, poi a un ritmo sempre più rapido, il paradiso terrestre dei Wilson si sgretola: numerosi pazienti con strani sintomi cominciano a morire misteriosamente, inquietanti trame si nascondono nelle stanze del loro ospedale; un incubo mortale li minaccia... Coinvolti in un sistema medico criminale, nel quale la polizia non intende indagare, Angela e David dovranno combattere con le loro sole forze per non essere travolti dall’orrore e salvaguardare così la felicità della loro famiglia.

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«L’ho capito che sei ancora arrabbiata con me per lo scherzo delle maschere», le disse. «Non potremmo parlarne?»

«Che cosa ti fa pensare che sia arrabbiata?»

«Dai, Angela. Mi stai rifilando la punizione del silenzio da quando Nikki è andata a letto.»

«Sono stata male nel vederti fare una cosa simile, quando sapevi benissimo come sono rimasta sconvolta per quel cadavere. Pensavo che fossi più sensibile.»

«Ti ho detto che mi dispiace. Non avrei mai pensato che ti saresti spaventata così tanto e poi non era solo uno scherzo per divertirsi. L’ho fatto per Nikki.»

«Che cosa vuoi dire?»

«Con gli incubi che aveva, ho pensato di aiutarla a superare questo momento con un po’ di humour. Era un trucco per farla scendere di nuovo in cantina senza che avesse paura e ha funzionato: era talmente eccitata all’idea di farti una sorpresa che non ha avuto paura.»

«Potevi almeno avvertirmi.»

«Ripeto: non pensavo che ti saresti spaventata così e poi, era la cospirazione alle tue spalle a divertire Nikki.»

Angela capì che David era colto dai rimorsi e la sua collera svanì del tutto. Appoggiò lo spazzolino e gli andò vicino, abbracciandolo. «Mi dispiace di avere reagito in quel modo», mormorò. «Devo essere stressata. Ti amo.»

«Anch’io ti amo. Avrei potuto dirtelo e tu avresti potuto far finta di non saperlo, ma non ci ho pensato. Ultimamente sono distratto e stressato, anch’io. Mary Ann Schiller sta per morire, lo so.»

«Suvvia, non si può mai esserne sicuri.»

«Non so che cosa fare», ammise David, e poi raccontò alla moglie del suo ex professore che era venuto espressamente da Boston e che non aveva scoperto niente.

«Sei ancora depresso?»

«Sì. Stamattina mi sono svegliato alle quattro e un quarto e non sono più riuscito a dormire. Continuo a pensare che ci sia qualcosa che mi sfugge nei miei pazienti; forse sono colpiti da un virus sconosciuto, ma è come se avessi le mani legate. È frustrante dover pensare a Kelley e al CMV ogni volta che ordino un’analisi di laboratorio o un consulto e dover fare in fretta quando visito i pazienti in ambulatorio.»

«Sei costretto a visitare più pazienti?» domandò Angela, mentre dal bagno passavano in camera da letto.

David annuì. «Il CMV fa forti pressioni su di me tramite Kelley e così devo smettere di parlare con i miei pazienti e rispondere alle loro domande. Non è difficile farlo, perché per noi medici è facile trattarli dall’alto in basso, ma a me non piace. Molti indizi per arrivare alla diagnosi giusta vengono proprio dai commenti spontanei che i pazienti fanno quando passiamo un po’ di tempo con loro.»

«Devo confessarti una cosa», disse Angela all’improvviso.

«Di che cosa stai parlando?»

«Anch’io oggi ho fatto qualcosa di cui avrei dovuto parlarti, prima di farla.»

«Che cosa?»

Scivolando sotto le coperte, Angela rivelò a David di avere ingaggiato Calhoun per indagare sull’omicidio di Hodges.

David la fissò, poi distolse lo sguardo senza dire niente e lei capì che era in collera.

«Ho seguito il tuo suggerimento; mi hai detto che era pericoloso indagare per conto mio», gli disse. «Ora ci pensa un professionista.»

«Che cosa lo rende un professionista?»

«È un poliziotto in pensione.»

«Speravo che avresti smesso con gli isterismi, riguardo all’affare Hodges. Assoldare un investigatore! È buttare soldi al vento.»

«No, se per me è importante», ribatté Angela. «E dovrebbe essere importante anche per te, se vuoi che io continui a vivere in questa casa.»

David sospirò, spense la luce sul proprio comodino e si tenne il più lontano possibile dalla moglie.

Lei sapeva che avrebbe dovuto avvertirlo prima di fare un passo simile. Sospirò anche lei e spense la luce. Forse non aveva agito nel modo giusto, ma restava convinta che ingaggiare Calhoun era stata una buona idea.

Si era appena spenta la luce, quando sentirono diversi colpi piuttosto forti, seguiti dall’abbaiare furioso di Rusty.

Entrambi riaccesero le lampade e si alzarono, poi corsero in corridoio, dove David accese la luce. Rusty era in cima alle scale e guardava verso il piano terreno immerso nell’ombra, ringhiando con tutta la ferocia di cui era capace.

«Hai controllato che tutte le porte fossero chiuse a chiave?» domandò Angela al marito.

«Sì», rispose lui e si avvicinò a Rusty. Lo accarezzò sulla testa e gli chiese: «Che cosa c’è, cucciolone?»

Rusty scese le scale e si mise ad abbaiare verso la porta d’ingresso. Mentre Angela rimaneva affacciata alla ringhiera, al piano di sopra, David scese e aprì la porta.

«Sta’ attento», lo ammonì lei.

«Perché non metti una di quelle maschere di Halloween?» le disse David. «Chiunque sia, si spaventerà a morte.»

«Smettila di scherzare, non c’è niente di divertente.»

David uscì sulla veranda, tenendo Rusty per il collare. Il cielo era punteggiato di stelle e il quarto di luna era sufficiente a illuminare lo spazio intorno alla casa, almeno fino alla strada. Non c’era niente di strano.

David si voltò per rientrare in casa e notò che sulla porta era stato inchiodato un biglietto scritto a macchina: PENSATE AI FATTI VOSTRI. DIMENTICATE HODGES.

Quando ritornò di sopra, lo mostrò ad Angela che disse: «Lo porterò alla polizia».

«Nemmeno per sogno! Magari viene proprio da lì», replicò lui. Tornò a letto e spense la luce, mentre Rusty si diresse verso la camera di Nikki, che per fortuna non si era svegliata.

Dopo pochi minuti il trillo del telefono li fece sobbalzare. Rispose David. Angela lo vide incupirsi a mano a mano che ascoltava.

«Mary Ann Schiller ha avuto un altro attacco epilettico ed è morta», le riferì lui dopo avere riattaccato, poi sollevò una mano e si coprì gli occhi. Angela gli si avvicinò e lo abbracciò, sapeva che stava piangendo in silenzio.

«Mi chiedo se questo renda le cose più facili», mormorò lui asciugandosi gli occhi. Quindi cominciò a vestirsi.

Angela lo accompagnò alla porta sul retro, che poi chiuse di nuovo a chiave. Ritornando in cucina, vide con gli occhi della mente la fluorescenza del Luminol sulle pareti. Rabbrividì. Non le piaceva rimanere sola in quella casa enorme, di notte, senza David.

Appena arrivato in ospedale, David incontrò il marito di Mary Ann, il figlio adolescente e qualche altro parente. Tutti lo ringraziarono per gli sforzi fatti.

«È rimasta con noi più a lungo di quanto avesse previsto il dottor Mieslich», disse Donald, il marito. Aveva gli occhi rossi e i capelli scomposti. «Aveva persino ripreso il lavoro alla biblioteca.»

David gli assicurò che Mary Ann non aveva sofferto, ma dovette ammettere di non conoscere la causa degli attacchi epilettici.

«Non se li aspettava?» gli domandò Donald.

«Per niente, specialmente considerando che la risonanza magnetica era normale», spiegò lui e poi, spinto da un impulso del momento, contravvenne agli ordini di Kelley e domandò se la famiglia autorizzava l’autopsia.

«Non lo so», disse Donald, guardando gli altri che sembravano anche loro indecisi.

«Pensateci e domani me lo farete sapere. Terremo il corpo qui.»

Lasciato il reparto di terapia intensiva, David non aveva voglia di andare a casa. Arrivò fino alla stanza delle infermiere del secondo piano e diede un’occhiata alla cartella clinica di Jonathan Eakins. Una delle infermiere di notte gli disse allora che Jonathan era sveglio e stava guardando la televisione.

David arrivò fino alla sua camera e cacciò dentro la testa. «Tutto a posto?» gli domandò.

«Che dottore sgobbone!» lo accolse Jonathan con un sorriso. «Dovrebbe stare a vivere qui!»

«Come vanno gli ingranaggi del suo cuore, regolari?»

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