Il cuore cominciò a battergli più forte. Trascinandosi dietro il tubicino dell’endovenosa, si portò l’altra mano al collo. C’era una benda. Ricordava tutto quanto. La freccia, il mamba nero, la simulazione dell’attacco di un serpente.
«Cos’è successo?»
Il vecchio colmò le lacune della sua memoria. Era l’anziano che per primo aveva riferito di aver visto un ukufa nel parco, cinque mesi prima. All’epoca, non era stato preso sul serio, nemmeno da Khamisi. «Ho sentito quello è successo a signora dottoressa», disse, facendo un cenno di solidarietà e condoglianze a Paula. «E ho sentito quello tu hai visto. La gente parla. Io vado casa tua, per parlare con te. Ma tu non in casa. Così aspetto. Altri vengono, allora io nascondo. Tagliano un serpente. Mamba. Magia cattiva. Io resto nascosto.»
Khamisi chiuse gli occhi. Era arrivato a casa, era stato punto e dato per morto. Ma i suoi aggressori non sapevano dell’uomo nascosto sul retro.
«Io vengo fuori», proseguì l’anziano. «Chiamo altri. In segreto, noi portiamo te via.»
Paula concluse il racconto: «Ti abbiamo portato qui. Il veleno ti ha quasi ucciso, ma la medicina, quella moderna e quella antica, ti ha salvato. Per un soffio».
Khamisi guardò la flebo e lo sciamano. «Grazie.»
«Ti senti abbastanza in forze per camminare? Dovresti mettere in movimento gli arti. Per la circolazione sanguigna il veleno è come un carico di mattoni.»
Assistito dallo sciamano, Khamisi si alzò, tenendosi pudicamente in vita la coperta fradicia. Fu accompagnato alla porta. Ai primi passi si sentiva debolissimo, ma ben presto una fragile forza gli si diffuse negli arti.
Scostarono il tappeto appeso alla porta, facendo affluire nella stanza una luce accecante e un caldo rovente. Doveva essere metà pomeriggio, pensò Khamisi. Il sole stava calando a ovest. Schermandosi gli occhi, uscì.
Riconobbe il piccolo villaggio zulù. Era ai margini della riserva di Hluhluwe-Umfolozi, non lontano da dove avevano trovato il rinocerente e la dottoressa Fairfield era stata attaccata.
Guardò Paula Kane. «È stato il sovrintendente.» Non aveva dubbi. «Voleva mettermi a tacere.»
«Perché non raccontassi come è morta Marcia.»
Lui annuì.
«Che cosa hai…»
La donna fu interrotta dal rumore di un elicottero bimotore che sfrecciò a bassa quota sopra le loro teste. Il turbinio dell’elica sferzò i cespugli e i rami degli alberi. I tappeti alle porte sventolavano, come se cercassero di scacciare l’intruso.
Il pesante velivolo sfrecciò via, volando radente alla savana.
Khamisi lo guardò. Non era un giro turistico.
Accanto a lui, Paula aveva impugnato un binocolo Bushneil e stava seguendo i movimenti dell’elicottero. Dopo essersi allontanato ancora un po’, si preparò ad atterrare. Khamisi fece qualche passo per vedere meglio.
Paula gli passò il binocolo. «È tutto il giorno che vanno e vengono.»
Khamisi vide il bimotore scendere dietro una recinzione nera alta tre metri. Segnava il confine della tenuta privata dei Waalenberg.
«Qualcosa li ha messi in agitazione», commentò Paula.
Ma Khamisi aveva notato qualcosa. Mise a fuoco la recinzione e riconobbe l’antico emblema della famiglia, apposto sul cancello d’ingresso in filigrana d’argento: la corona e la croce dei Waalenberg.
11. IL DEMONE DENTRO LA MACCHINA
In volo sull’oceano Indiano,
ore 12.33
«Il capitano Bryant e io faremo del nostro meglio per indagare sui Waalenberg qui a Washington», disse Logan Gregory al telefono.
Painter stava usando un auricolare, perché gli servivano le mani libere per vagliare la montagna di documenti che Logan aveva faxato a Katmandu. C’era di tutto sui Waalenberg: la storia della famiglia, i rendiconti finanziari, i legami internazionali, persino i pettegolezzi e le insinuazioni.
In cima alla pigna c’era una fotografia sgranata: un uomo e una donna che scendevano da una limousine. Gray Pierce l’aveva scattata dalla suite di un hotel dall’altra parte della strada, prima dell’inizio di un’asta. Il controllo digitale aveva confermato la valutazione di Logan. Il tatuaggio era legato al clan dei Waalenberg. I due nella foto erano i gemelli Isaak e Ischke Waalenberg, i due eredi più giovani della fortuna di famiglia, un patrimonio che poteva competere col prodotto interno lordo della maggior parte dei Paesi del mondo.
Cosa ancora più importante, Painter riconobbe l’incarnato pallido e i capelli bianchi. I due erano Sonnenkönige. Come Gunther, come l’assassina al castello.
Painter diede un’occhiata alla parte anteriore della cabina del Gulfstream: Gunther dormiva disteso su un divano, con le gambe penzoloni; Anna invece era seduta su una poltrona lì accanto, di fronte a una catasta di documenti. I due erano guardati a vista dal maggiore Brooks e da due ranger armati. I ruoli si erano rovesciati. I carcerieri erano diventati prigionieri. Tuttavia, nonostante i nuovi rapporti di potere, tra loro non era cambiato nulla. Anna aveva bisogno dei contatti e del supporto logistico di Painter, il quale aveva bisogno delle conoscenze di Anna sulla Campana e su tutti gli aspetti scientifici connessi.
«Quando tutto questo sarà finito, ci occuperemo delle questioni legali e di responsabilità», aveva detto Anna poco prima.
Logan interruppe i suoi pensieri. «Kat e io abbiamo fissato un appuntamento per domani mattina con l’ambasciata sudafricana. Vedremo se ci possono aiutare a fare un po’ di luce su questa famiglia molto discreta.»
Definirla discreta era un eufemismo. I Waalenberg erano i Kennedy del Sudafrica: ricchi, spietati, con una proprietà delle dimensioni di Rhode Island. Sebbene la famiglia possedesse grandi terreni anche altrove, i Waalenberg si allontanavano di rado dalla loro tenuta principale.
Painter prese la foto digitale sgranata. Una famiglia di Sonnenkönige.
Il tempo stringeva e l’unico luogo in cui potesse essere nascosta una seconda Campana era quella tenuta.
«Un agente britannico vi verrà incontro quando atterrerete a Johannesburg. L’MI5 tiene d’occhio i Waalenberg da anni, seguendo le loro transazioni insolite, ma non è riuscito a penetrare il muro di riserbo e segretezza che li protegge.»
Non era tanto difficile, dato che i Waalenberg erano praticamente i proprietari dell’intero Paese, pensò Painter.
«Vi offriranno supporto e informazioni sul territorio», concluse Logan. «Avrò altri dettagli quando atterrerete, fra tre ore.»
«Molto bene», rispose Painter, fissando la fotografia. «E che mi dice di Gray e Monk?»
«Sono scomparsi. Abbiamo trovato la loro auto parcheggiata all’aeroporto di Francoforte.»
Francoforte? Non aveva senso. Era un importante hub internazionale, ma Gray aveva accesso a un jet del governo, più efficiente di qualsiasi linea aerea commerciale. «Nemmeno una parola?»
«Nossignore. Siamo in ascolto su tutti i canali.»
Quella notizia era sconcertante.
Massaggiandosi la testa, perforata da un’emicrania che nemmeno la codeina riusciva a scalfire, Painter si concentrò sul rombo dell’aeroplano che solcava i cieli bui. Che cosa era successo a Gray? C’erano poche possibilità: si era nascosto, era stato catturato oppure era stato ucciso.
«Cerchi ovunque, Logan.»
«Lo stiamo facendo. Speriamo di avere altre notizie quando atterrerete a Johannesburg.»
«Ma lei ogni tanto dorme?»
«C’è un caffè Starbucks all’angolo, signore. Diciamo a ogni angolo.» Le sue parole erano stancamente divertite. «E lei, signore?»
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