Ma furono sforzi vani.
Entrambi gli elicotteri puntarono giù per il pendio, verso di loro, sputando fuoco dal muso. Neve e ghiaccio saltavano in aria, in linee parallele di morte, che bucherellavano la roccia, puntando direttamente sul campo base.
«No…» gemette Lisa.
Boston Bob gridò, mentre arretrava: «Che diavolo avete fatto?»
La folla, esterrefatta e immobile per un istante, improvvisamente eruppe in grida e urla, disperdendosi in tutte le direzioni.
Painter prese l’altro braccio di Lisa e la trascinò via, portandosi dietro anche Josh. Ma non c’era nessun nascondiglio.
«Una radio!» gridò Painter a Josh. «Dove troviamo una radio?»
Il fratello di Lisa si limitò a guardare il cielo in silenzio.
Lei lo strattonò, attirando la sua attenzione. «Josh, dobbiamo trovare una radio.» Aveva capito a cosa pensava Painter. Perlomeno dovevano far sapere al resto del mondo quello che era successo.
Josh indicò una grande tenda rossa. «Da questa parte… Hanno allestito una rete di comunicazione d’emergenza, dopo l’attacco dei ribelli al monastero.»
Si precipitarono in quella direzione.
Lisa notò che Boston Bob li seguiva, guardandosi le spalle, percependo l’autorità che emanava Paitner. O forse era il fucile d’assalto di Gunther. Il tedesco aveva caricato un’altra granata nel lanciarazzi. Era pronto a un ultimo atto di resistenza, mentre loro tentavano di inviare un appello via radio.
Ma, prima che potessero raggiungere la tenda, Painter gridò: «Giù!» e gettò a terra Lisa.
Tutti seguirono il suo esempio, anche se Josh dovette afferrare Boston Bob per le gambe per farlo cadere.
Un nuovo, strano rumore echeggiò tra le montagne. Painter scandagliò il cielo.
«Che cosa…» chiese Lisa.
«Aspetta», disse Painter, perplesso.
Poi, sopra la spalla del Lhotse, comparvero due jet militari, che solcavano il cielo a tutta velocità, tracciando scie parallele. Sputavano fuoco da sotto le ali.
Missili.
Ma il loro obiettivo non era la base. I jet sfrecciarono sulle loro teste con un rombo assordante e salirono rapidamente di quota.
I due elicotteri d’assalto vennero colpiti dai missili termici, riversando sulla neve una pioggia di fuoco e rottami. Ma nemmeno una scheggia arrivò fino al campo.
Painter si rimise in piedi, poi aiutò Lisa ad alzarsi. Gli altri fecero altrettanto.
Boston Bob si fece avanti, facendo il prepotente con Lisa. «Che diavolo era quel casino? Che merda ci hai scaricato addosso?»
Lisa fece per andarsene. Come le era venuto in mente di andare a letto con quel tipo, a Seattle? Era come se fosse stata un’altra donna a farlo.
«E non mi voltare le spalle, puttana!»
Lisa si girò, col pugno chiuso, ma non ce ne fu bisogno. Ci aveva già pensato Painter. Caricò il braccio e mollò un diretto in faccia a quell’uomo. Lisa sapeva che cos’era un colpo da KO, ma non ne aveva mai visto uno dal vivo. Boston Bob cadde all’indietro, dritto come un fuso, e si schiantò al suolo. Non si rialzò. Rimase lungo disteso, col naso rotto, privo di sensi.
Painter scrollò la mano, trasalendo.
Josh restò a guardare a bocca aperta, poi sorrise. «Ragazzi, è da una settimana che non vedevo l’ora di farlo.»
Prima che qualcuno potesse aggiungere qualcosa, un uomo dai capelli biondo-rossicci uscì dalla tenda. Indossava un’uniforme militare. Degli Stati Uniti.
Si avvicinò al gruppetto, posando lo sguardo su Painter. «Direttore Crowe?» chiese, con l’accento strascicato della Georgia, tendendo una mano.
Painter accettò la stretta di mano, con una smorfia di dolore per la pressione sulle nocche contuse.
«Logan Gregory le manda i suoi saluti, signore.» Con un cenno del capo, l’uomo indicò i resti degli elicotteri esplosi.
«Meglio tardi che mai.»
«Lo abbiamo in linea. Se mi vuole seguire.»
Painter accompagnò l’ufficiale dell’Air Force, il maggiore Brooks, verso la tenda. Lisa cercò di seguirli, assieme ad Anna e Gunther, ma il maggiore sollevò una mano per fermarli.
«Torno subito», li rassicurò Painter, entrando nella tenda.
All’interno c’era un vasto assortimento di apparecchiature. Un radiotelegrafista si allontanò da una stazione per le telecomunicazioni satellitari e Painter prese il suo posto.
«Logan?»
La voce gli giunse chiara. «Direttore Crowe, è meraviglioso sentire che sta bene.»
«Penso di dover ringraziare lei per questo.»
«Abbiamo ricevuto il suo SOS.»
Perciò il suo messaggio era arrivato a destinazione. Per fortuna il segnale GPS era stato inviato prima che l’amplificatore sovraccarico esplodesse. Evidentemente era stato sufficiente per consentire la loro localizzazione.
«Abbiamo dovuto lavorare alla svelta per attivare la sorveglianza e coordinarci con l’esercito reale nepalese», spiegò Logan. «E comunque ce l’abbiamo fatta per un soffio.»
Ovviamente Logan aveva monitorato l’intera situazione via satellite, forse già dal momento in cui erano fuggiti dal castello.
Ma i dettagli potevano attendere, Painter aveva preoccupazioni più importanti. «Logan, prima che faccia un rapporto completo, ho bisogno che lei avvii una ricerca. Le faxerò un simbolo, un tatuaggio.» Painter mimò il gesto di scrivere su un blocco, rivolgendosi al maggiore Brooks. Gli furono portati carta e penna. Disegnò rapidamente il simbolo che aveva visto sulla mano dell’assassina: era l’unico indizio che avevano. «Cominci immediatamente. Veda se riesce a scoprire se qualche organizzazione terroristica, partito politico, cartello del narcotraffico, o addirittura un reparto di Boy Scout ha qualche legame con questo simbolo.»
«Mi metto subito al lavoro.»
Completato uno schizzo approssimativo del tatuaggio a forma di quadrifoglio, Painter lo passò al radiotelegrafista.
Mentre il fax veniva trasmesso, Painter riferì in breve che cosa era accaduto. Fu grato a Logan perché non lo interruppe per fare domande.
«Il fax è già arrivato?» chiese Painter dopo qualche minuto.
«Lo sto prendendo in mano in questo momento.»
«Perfetto. Questa ricerca ha la massima priorità.»
Seguì una lunga pausa. Painter pensò che avessero perso il segnale, poi Logan ricominciò a parlare, esitante, confuso. «Signore…»
«Che c’è?»
«Conosco questo simbolo. Grayson Pierce me l’ha mandato otto ore fa.»
«Come?»
Logan riferì gli eventi di Copenhagen. Painter faceva fatica a dare un senso a tutto quanto. Conclusa la fuga, l’adrenalina stava svanendo e il dolore martellante alla testa lo confondeva e lo deconcentrava. Si sforzò di mettere assieme i pezzi del puzzle. Gli stessi assassini erano alle costole di Gray, Sonnenkönige nati sotto una Campana straniera. Ma che cosa ci facevano in Europa? Che cosa c’era di così importante in qualche libro? Gray era in Germania a proseguire le indagini, cercando di scoprire qualcosa di più.
Painter chiuse gli occhi. Il mal di testa peggiorò ulteriormente. Gli attentati in Europa confermavano ancora una volta che era in atto qualcosa di grosso. E forse che il piano stava per arrivare a compimento.
Ma quale?
Avevano soltanto un punto di partenza, un unico indizio. «Quel simbolo deve essere importante. Dobbiamo scoprire a chi appartiene.»
Logan rispose, in tono asciutto: «Forse ho la risposta».
«Come? Di già?»
«Ho avuto otto ore, signore.»
Giusto. Painter scosse la testa. Diede un’occhiata alla penna che aveva in mano, poi notò qualcosa di strano. Girò la mano: l’unghia del mignolo era scomparsa, si era staccata, forse quando aveva preso a pugni lo stronzo, qualche minuto prima. Non c’era sangue, soltanto carne asciutta, pallida, insensibile e fredda.
Painter sapeva bene cosa significava.
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