Giorgio Faletti - Io sono Dio

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Non c’è morbosità apparente dietro le azioni del serial killer che tiene in scacco la città di New York. Non sceglie le vittime seguendo complicati percorsi mentali. Non le guarda negli occhi a una a una mentre muoiono, anche perché non avrebbe abbastanza occhi per farlo. Una giovane detective che nasconde i propri drammi personali dietro a una solida immagine e un fotoreporter con un passato discutibile da farsi perdonare sono l’unica speranza di poter fermare uno psicopatico che nemmeno rivendica le proprie azioni. Un uomo che sta compiendo una vendetta terribile per un dolore che affonda le radici in una delle più grandi tragedie americane. Un uomo che dice di essere dio.

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Buona fortuna, Wendell…

Scostò il lenzuolo e si mise a sedere sul letto.

«Vai a fare in culo, colonnello Lensky. Tu e le tue sindromi del cazzo.»

Tutto era alle spalle, ormai.

Chillicothe, Karen, la guerra, l’ospedale.

Il fiume seguiva il suo corso e solo la riva conservava il ricordo dell’acqua passata.

Aveva ventiquattro anni e non sapeva se quello che aveva davanti si potesse ancora chiamare futuro. Ma per qualcuno quella parola avrebbe presto perso ogni significato.

A piedi scalzi, si avvicinò al televisore e lo spense. Il viso rassicurante dello speaker venne risucchiato dal buio e divenne un pallino luminoso al centro dello schermo. Come tutte le illusioni durò qualche istante, prima di sparire del tutto.

CAPITOLO 4

«Sei sicuro che non vuoi che ti porti fino in città?»

«No, qui è perfetto. Molte grazie, signor Terrance.»

Aprì la portiera. L’uomo al volante lo guardò con un sorriso nel viso abbronzato, sollevando le sopracciglia con aria interrogativa. Nella luce del cruscotto, di colpo gli ricordò un personaggio di Don Martin.

«Volevo dire molte grazie, Lukas.»

L’uomo gli fece un gesto sollevando il pollice verso l’alto.

«Così va bene.»

Si strinsero la mano. Poi il caporale sfilò la sacca dallo spazio dietro i sedili, uscì dalla macchina e chiuse la portiera. La voce dell’uomo al volante gli giunse attraverso il finestrino aperto.

«Qualunque cosa tu stia cercando, ti auguro di trovarla. O che lei trovi te.»

Le ultime parole quasi si persero nel brontolio delle marmitte. In un istante il mezzo con cui era arrivato divenne il suono di un motore che si allontanava, un sentore di carburante disperso dal vento e dalla distanza.

Una luce di fanali che la sera inoltrata inghiottiva come se fosse il suo pasto abituale.

Sistemò la sacca sulla spalla e iniziò a camminare. Un passo dopo l’altro, sentendo come un animale la vicinanza, i profumi, i posti. Tuttavia non c’erano ansia o euforia per quel ritorno.

Solo determinazione.

Poche ore prima, nella sua stanza al motel, aveva trovato nell’armadio una scatola da scarpe vuota, dimenticata da qualche ospite precedente. Sul coperchio c’era il marchio delle Famous Flag Shoes, che si compravano per corrispondenza. Il fatto che fosse ancora lì, la diceva lunga sull’accuratezza delle pulizie all’Open Inn. Aveva tolto le alette al coperchio e aveva scritto sul fondo bianco CHILLICOTHE in lettere maiuscole, ripassandole più volte con un pennarello nero che aveva nella sacca. Era sceso alla reception con la borsa in spalla e quel cartello come ipotesi di viaggio in mano. Dietro al banco, una ragazza anonima con le braccia troppo magre e i capelli lunghi e lisci e un nastro rosso intorno alla testa aveva sostituito il tipo con baffi e basette. Quando si era avvicinato per restituire la chiave, aveva perso la sua espressione incantata da Flower Power e lo aveva guardato con una traccia di timore negli occhi scuri.

Come se stesse andando verso di lei con l’intenzione di aggredirla. Stava imparando a fare i conti con questo atteggiamento. E sospettava fosse un bilancio che non sarebbe mai andato in pareggio.

Eccola, la mia fortuna, colonnello…

Aveva avuto per un attimo la tentazione maligna di spaventarla a morte, di ripagare con la stessa moneta quella repulsione e quella diffidenza istintive che aveva provato per lui. Ma non era né il momento né il posto per andarsi a cercare delle grane.

Aveva appoggiato con ostentata delicatezza la chiave sul piano di vetro, davanti a lei.

«Ecco la chiave. La camera fa schifo.»

La sua voce calma e le sue parole avevano fatto sobbalzare la ragazza.

Lo aveva guardato un poco allarmata.

Muori, stronza.

«Mi dispiace.»

Lui aveva scosso la testa in modo impercettibile. L’aveva fissata, lasciandole immaginare gli occhi nascosti dietro le lenti scure.

«Non dire così. Lo sappiamo tutti e due che non te ne frega niente.»

Aveva girato le spalle ed era uscito dal motel.

Oltre la porta a vetri aveva ritrovato il sole del piazzale. Alla sua destra c’era la stazione di servizio con l’insegna arancione e azzurra della Gulf.

Un paio di macchine erano in fila per entrare nel lavaggio e le pompe parevano avere un afflusso di mezzi sufficiente a farlo sperare in un risultato entro tempi ragionevoli. Si era incamminato verso un coffee shop sormontato da una insegna fatta a freccia che lo presentava al mondo come Florence Bowl e che proponeva cucina casalinga e breakfast a tutte le ore.

Lo aveva superato augurando ai clienti all’interno che il caffè e il cibo fossero migliori della fantasia di chi aveva trovato il nome del locale.

Era sfilato davanti alle proposte di Canada Dry e Tab e Bubble Up e ai suggerimenti per gli hamburger. Aveva ignorato le offerte di pneumatici a metà prezzo e STP e cambi d’olio scontati e si era piazzato all’uscita dell’area di servizio, in modo da essere bene in vista sia per le macchine che uscivano dal parcheggio del ristorante sia per quelle che lasciavano le pompe dopo aver fatto rifornimento.

Aveva gettato la sua sacca a terra e ci si era seduto sopra. Aveva teso il braccio, cercando di fare in modo che il cartello con la scritta fosse il più evidente possibile.

E aveva atteso.

A volte qualche macchina aveva rallentato. Una si era addirittura fermata ma quando si era alzato per raggiungerla e il guidatore lo aveva visto in faccia, era ripartito come se avesse incontrato il diavolo.

Era ancora seduto sulla sacca con il suo patetico cartello proteso, quando l’ombra di un uomo si era stampata sull’asfalto davanti a lui. Aveva sollevato il capo e si era trovato di fronte un tipo che indossava una tuta nera con degli inserti rossi. Sul petto e sulle maniche aveva dei marchi colorati di sponsor.

«Pensi di riuscire ad arrivarci a Chillicothe?»

Lui aveva abbozzato un sorriso.

«Se continua così direi di no.»

L’uomo era alto, sulla quarantina, con un fisico asciutto e con barba e capelli rossicci. Lo aveva guardato un istante prima di proseguire. Poi aveva abbassato la voce di un tono, come per minimizzare quello che stava per dire.

«Non so chi ti ha conciato in quel modo e non sono affari miei. Solo una cosa ti chiedo. E se non mi dici la verità me ne accorgerò.»

Si era concesso una pausa. Per soppesare le parole. O forse perché avessero più peso.

«Hai dei guai con la legge?»

Lui si era tolto il berretto e gli occhiali e lo aveva guardato.

«No, signore.»

Suo malgrado, il tono di quel «No, signore» lo aveva identificato senza possibilità di dubbio.

«Sei un soldato?»

La sua espressione era sembrata una conferma più che esauriente. La parola Vietnam non venne pronunciata ma galleggiava nell’aria.

«Lotteria?»

Aveva scosso la testa.

«Volontario.»

D’istinto aveva chinato la testa mentre pronunciava questa parola, quasi fosse una colpa. E si era subito pentito. Aveva rialzato il viso e piantato gli occhi in quelli dell’uomo in piedi davanti a lui.

«Come ti chiami, ragazzo?»

La domanda lo aveva sorpreso. L’uomo aveva colto la sua esitazione e aveva scrollato le spalle.

«Un nome vale l’altro. È solo per sapere come rivolgermi a te. Io sono Lukas Terrance.»

Si era alzato e aveva stretto la mano che l’altro gli porgeva.

«Wendell Johnson.»

Lukas Terrance non aveva mostrato perplessità per i guanti di cotone.

Aveva indicato con un cenno del capo un grande pick-up nero e rosso che portava sulle fiancate gli stessi marchi che aveva sulla tuta. Era fermo a una pompa alle loro spalle e un inserviente di colore gli stava facendo il pieno. Al traino aveva un carrello con sopra una monoposto per le corse negli ovali su terra. Era uno strano mezzo, con le ruote scoperte e la cabina di guida che sembrava a malapena poter contenere un uomo. Una volta ne aveva vista una simile sulla copertina di «Hot Rod», una rivista di motori.

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