Giorgio Faletti - Io sono Dio

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Non c’è morbosità apparente dietro le azioni del serial killer che tiene in scacco la città di New York. Non sceglie le vittime seguendo complicati percorsi mentali. Non le guarda negli occhi a una a una mentre muoiono, anche perché non avrebbe abbastanza occhi per farlo. Una giovane detective che nasconde i propri drammi personali dietro a una solida immagine e un fotoreporter con un passato discutibile da farsi perdonare sono l’unica speranza di poter fermare uno psicopatico che nemmeno rivendica le proprie azioni. Un uomo che sta compiendo una vendetta terribile per un dolore che affonda le radici in una delle più grandi tragedie americane. Un uomo che dice di essere dio.

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La Francia, la Spagna, l’Italia…

Proprio Florence, quella italiana, era stata la città sulla quale si erano soffermati di più. Karen gli aveva spiegato di quel posto cose che lui non sapeva e fatto sognare cose che non immaginava si potessero sognare.

Quella era un’epoca in cui ancora credeva che le speranze non costassero nulla, prima di imparare che invece possono costare molto care.

La vita, a volte.

Con l’ironia dell’esistenza che non esaurisce mai la vena, a una Florence c’era arrivato, dopotutto. Ma niente era come avrebbe dovuto essere. Gli tornarono alla mente le parole di Ben, l’uomo che per lui si era avvicinato di più alla figura di un padre.

Il tempo è un naufragio e solo quello che vale davvero torna a galla…

Il suo si era rivelato solo un beffardo appiglio a una zattera, un faticoso approdo alla realtà dopo essere colato a picco nella sua piccola privata utopia.

L’autista condusse docile il mezzo alla stazione degli autobus. Si arrestò con un sobbalzo accanto a una pensilina malmenata dalla ruggine e dalle insegne sbiadite.

Lui rimase seduto al suo posto, in attesa che tutti gli altri passeggeri scendessero. Una donna dall’apparente origine messicana con una bambina addormentata in braccio ebbe qualche problema a spostarsi con la valigia che portava nella mano libera. Nessuno fece il gesto di aiutarla. Il ragazzo alla sua destra raccolse la borsa e non resistette alla tentazione di lanciare verso di lui un’ultima occhiata.

Il caporale aveva deciso di arrivare a Chillicothe verso sera e dunque preferiva fare una sosta prima di passare il confine. Florence era un posto come un altro e di conseguenza era il posto giusto. Qualunque posto lo era, in quel momento. Da lì avrebbe cercato di raggiungere la sua meta con l’autostop nonostante le complicazioni che questa scelta comportava.

Sarebbe stato difficile per chiunque accettare di farlo salire in macchina.

Di solito la gente abbinava alla deturpazione fisica una propensione alla malvagità direttamente proporzionale. Senza riflettere che il male per nutrirsi deve essere seducente, accattivante. Deve attirare a sé il mondo che ha intorno con la promessa della bellezza e la premessa del sorriso. E lui ora si sentiva come l’ultima figurina mancante per completare l’album dei mostri.

L’autista lanciò uno sguardo nello specchietto dal quale poteva controllare l’interno dell’autobus e subito dopo girò la testa. Il caporale non si chiese se fosse un invito a scendere o se stesse verificando che quello che aveva intravisto nello specchietto corrispondesse a verità. In ogni caso era lui ad avere l’obbligo dell’iniziativa. Si alzò e prese la sacca dal portapacchi. Se la caricò sulla spalla, facendo attenzione a sostenere la cinghia di tela con la mano protetta dal guanto per evitare abrasioni.

Percorse il corridoio mentre l’autista, un tipo che assomigliava curiosamente a Sandy Koufax, il pitcher dei Dodgers, sembrava di colpo attratto in modo particolare dal cruscotto.

Il caporale scese quei pochi gradini interminabili e si ritrovò di nuovo solo in un piazzale, sotto un sole che era lo stesso in tutte le parti del mondo.

Diede uno sguardo in giro.

Dall’altra parte del piazzale, diviso in due dalla strada, c’era una stazione di servizio della Gulf, con un bar ristorante e un parcheggio in comune con l’Open Inn, un motel dall’aspetto malandato che prometteva camere libere e sogni d’oro.

Sistemò meglio sulla spalla la sacca con le sue cose e si avviò in quella direzione, disposto a comprarsi un poco di ospitalità senza discutere il prezzo.

Finché fosse durata, sarebbe stato un nuovo cittadino di Florence, Kentucky.

CAPITOLO 3

Il motel era, al contrario di ogni promessa, un ordinario momento di turismo a basso costo. Dappertutto il colore della necessità senza il gusto del piacere. L’uomo che lo aveva fronteggiato dietro al bancone della reception, un tipo basso e grassoccio dalla calvizie precoce che compensava con lunghe basette e baffi i pochi capelli rimasti, non aveva avuto la minima reazione visibile quando gli aveva chiesto una camera.

Solo, non gli aveva consegnato la chiave finché non aveva depositato sul banco il denaro chiesto in anticipo. Non aveva capito se fosse una prassi abituale o un trattamento di favore riservato a lui in esclusiva. In un caso o nell’altro, non gli importava.

Nella stanza c’era odore di umido e mobili da viaggio e la moquette scadente era macchiata in diversi punti. La doccia che aveva fatto, nascosto agli occhi di nessuno dietro a una tenda di plastica, era stata un’alternanza senza controllo di acqua calda e fredda. La televisione funzionava a tratti e infine si era deciso a lasciarla sintonizzata sul canale locale, dove le immagini e l’audio erano più nitidi. Stavano trasmettendo una vecchia puntata di The Green Hornet, una serie con Van Williams e Bruce Lee che era andata in onda per un solo anno, parecchio tempo prima.

Adesso era steso nudo sul letto con gli occhi chiusi. Le parole dei due eroi mascherati, lanciati con i loro vestiti sempre immacolati nella lotta contro il crimine, erano un brusio lontano. Aveva scalzato il copriletto e si era messo sotto il lenzuolo, per non avere subito lo spettacolo del suo corpo quando li avesse riaperti.

Ogni volta la tentazione era di tirare quel sottile strato di tessuto fin sopra la testa, come si fa con i cadaveri. Ne aveva visti tanti appoggiati a terra in quel modo, con un telo macchiato di sangue gettato addosso non per pietà, ma per evitare che i sopravvissuti avessero una visione chiara di quello che sarebbe potuto capitare a chiunque di loro da un momento all’altro. Troppi ne aveva visti, di morti, al punto di farne parte mentre era ancora vivo. La guerra gli aveva insegnato a uccidere e gli aveva concesso di farlo senza accusa e senza colpa per il semplice fatto di indossare una divisa. Ora tutto ciò che restava di quella divisa era una giacca di tela verde in fondo a una sacca. E le regole erano tornate quelle di sempre.

Ma non per lui.

Senza saperlo, gli uomini che lo avevano mandato ad affrontare la guerra e i suoi riti tribali gli avevano regalato qualcosa che prima aveva avuto solo l’illusione di possedere: la libertà.

Anche quella di uccidere ancora.

Sorrise all’idea e rimase steso a lungo in quel letto che senza nessuna cortesia aveva accolto decine di corpi. In quelle ore insonni, col solo biglietto di viaggio dei suoi occhi chiusi, tornò indietro nel tempo, a quando ancora di notte…

dormiva sodo, come solo i ragazzi fanno dopo una giornata di lavoro.

Un rumore sordo lo aveva svegliato all’improvviso e subito dopo la porta della stanza si era spalancata, portandogli un soffio d’aria sulla faccia e una luce puntata addosso. Dal bagliore aveva visto spuntare la minaccia brunita della canna di un fucile che si era fermata a una spanna dal suo viso. C’erano ombre dietro quella luce e nel suo cervello ancora deriso dai residui del sonno.

Una delle ombre era diventata una voce, dura e precisa.

«Non ti muovere, stronzetto, altrimenti sarà l’ultima cosa che fai da vivo.»

Mani ruvide lo avevano voltato a faccia in giù sul letto. Le braccia gli erano state tirate senza garbo dietro la schiena. Aveva sentito lo scatto metallico delle manette e da quel momento in poi i suoi movimenti e la sua vita non gli erano più appartenuti.

«Sei già stato in riformatorio. La sai quella faccenda dei tuoi diritti?»

«Sì.»

Aveva soffiato a fatica quel monosillabo, con la bocca impastata.

«Allora fai conto che te li abbia letti.»

La voce si era rivolta all’altra ombra nella stanza con un tono di comando.

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