Era troppo. Dovevo dormire, se volevo riuscire a capirci qualcosa.
Non mi sfuggì un gemito, ma quasi, quando mi abbandonai sul letto. Lasciai che il sonno mi sopraffacesse in fretta, sprofondando nel buio. Riuscii a mettere insieme quasi due ore e mezza di sonno, prima che squillasse il telefono.
«Sono io», disse la voce dall’altra parte.
«Certo che lo sei», risposi. «Deborah?» Certo che era lei. «Ho trovato il camion frigorifero.»
«Be’, congratulazioni, Deb. Ottima notizia.»
Dall’altra parte si udì un silenzio prolungato.
«Deb?» mi decisi a chiedere. «È o non è un’ottima notizia?»
«No.»
«Oh.» Sentivo il sonno battermi alla testa come un battipanni sopra un tappeto delle preghiere, ma cercai di concentrarmi. «Ehm, Deb, che cosa hai… che cosa è successo?»
«Ho fatto i confronti. Fino a essere sicura al cento per cento. Fotografie, numeri di matricola, tutto quanto. Poi ho riferito tutto a LaGuerta, da brava girl-scout.»
«E lei non ti ha creduto?» chiesi, spaesato.
«Probabilmente sì.»
Cercai di battere le palpebre, ma sembravano incollate e lasciai perdere. «Mi spiace, Deb, ma uno di noi ha perso il filo. Sono per caso io?»
«Ho cercato di spiegarglielo», aggiunse Deborah, con voce stanca e flebile. Avevo l’impressione di essere in alto mare, senza salvagente. «Le ho detto tutto quanto, sono stata anche gentile.»
«Molto bene», approvai. «E lei che cos’ha detto?»
«Niente.»
«Niente di niente?»
«Niente di niente», ripeté Deborah. «Solo grazie, con lo stesso tono con cui lo direbbe a un parcheggiatore. Poi mi ha fatto un sorrisetto e se n’è andata.»
«Be’, Deb, non puoi aspettarti che…»
«E poi ho capito perché sorrideva in quel modo. Come se io fossi una povera mentecatta e finalmente avesse trovato dove rinchiudermi.»
«Oh, no. Vuoi dire che sei fuori dal caso?»
«Lo siamo tutti, Dexter.» La voce di Deborah sembrava stanca quanto la mia. «LaGuerta ha fatto un arresto.»
Il silenzio calò improvvisamente sulla linea. D’un tratto mi ritrovai incapace di pensare, ma perfettamente sveglio.
«Che cosa?» esclamai.
«LaGuerta ha arrestato un sospetto. Un tale che lavora all’Arena. Lo tiene sotto custodia ed è sicura che sia l’assassino.»
«Non è possibile», dissi, anche se sapevo che lo era. Quella puttana deficiente. LaGuerta, non Deb.
«Lo so, Dexter. Ma non cercare di dirlo a LaGuerta. Lei è sicura di avere in mano l’uomo giusto.»
«Quanto sicura?»
Deb sbuffò. «Ha indetto una conferenza stampa tra un’ora. Non ha il minimo dubbio.»
Il rimbombo nella mia testa divenne troppo forte per distinguere quello che Deb poteva avere detto in seguito. LaGuerta aveva effettuato un arresto? Chi? Chi mai poteva avere incastrato? Come era possibile che, ignorando ogni indizio, ogni odore, ogni sensazione relativa a questi delitti, arrivasse ad arrestare qualcuno? Perché nessun assassino in grado di fare quello che quell’uomo aveva fatto e stava facendo, poteva consentire a una deficiente come lei di arrestarlo. Mai. Ci avrei scommesso la vita.
«No, Deborah», dichiarai. «No. Non è possibile. Ha preso l’uomo sbagliato.»
Deborah rise: una risata stanca, da poliziotto-nella-merda-fino-a-qui. «Già. Lo so io. Lo sai tu. Ma lei non lo sa. E, vuoi ridere? Non lo sa nemmeno lui.»
Non aveva alcun senso. «Che cosa stai dicendo, Deb? Chi non lo sa?»
Lei ripeté la sua terribile risata. «Il tipo che ha arrestato. Credo che abbia le idee confuse quanto LaGuerta, Dex, perché ha confessato.»
«Come?»
«Ha confessato, Dexter. Il bastardo ha confessato.»
Si chiamava Daryll Earl McHale ed era quello che si è soliti chiamare un fallito. Degli ultimi vent’anni, ne aveva trascorsi dodici in qualità di ospite dello Stato della Florida. Il caro sergente Doakes aveva disseppellito il suo nome dagli archivi del personale dell’Arena con un controllo incrociato al computer: tra i dipendenti con precedenti per reati di violenza, il nome di McHale era spuntato due volte.
Daryll Earl era un ubriacone che picchiava la moglie. A quanto pareva, di quando in quando rapinava pompe di benzina, giusto per divertirsi. Conservava mediamente un posto di lavoro per uno o due mesi. Ma poi un venerdì sera svuotava qualche confezione da sei di birra e cominciava a credere di essere l’Ira di Dio. Perciò girava in macchina fino a trovare una stazione di servizio che gli stesse antipatica, partiva all’assalto brandendo una pistola, prendeva tutti i soldi e scappava. Dopo di che investiva il suo ricco bottino di ottanta o novanta dollari per comprare altre confezioni da sei. Quando ne aveva bevute a sufficienza, si sentiva così bene che gli veniva voglia di prendere a botte qualcuno. Daryll Earl non era un omone: era alto un metro e sessantacinque ed era inagrissimo. Sicché, per andare sul sicuro, il qualcuno da prendere a botte solitamente era sua moglie.
Per come andavano le cose, l’aveva passata liscia un paio di volte. Ma una notte aveva esagerato e la moglie era stata messa in trazione per un mese. Lei lo aveva denunciato e, grazie ai suoi precedenti, Daryll Earl aveva subito una seria condanna.
Beveva ancora, ma apparentemente a Raiford si era preso paura e aveva cominciato a rigare quasi diritto. Si era trovato un posto come custode all’Arena e se lo era tenuto stretto. A quanto se ne sapeva, erano secoli che non picchiava più la moglie.
Inoltre, il nostro giovanotto aveva vissuto persino qualche momento di fama, quando i Panthers erano entrati nella Stanley Cup, con la faccenda dei topolini di plastica.
Una parte del lavoro di Daryll Earl consisteva nel correre sul ghiaccio a raccogliere gli oggetti gettati in campo dai tifosi. L’anno della Stanley Cup il lavoro si era fatto impegnativo, perché a ogni punto segnato dai Panthers i tifosi gettavano in campo tre o quattromila topolini di plastica. Daryll Earl doveva scattare a raccoglierli tutti, un lavoro noioso, senza dubbio. Così, incoraggiato da qualche sorso di vodka scadente, una sera ne aveva raccolto uno e aveva improvvisato una breve «Danza del Topolino». La folla era andata in visibilio e aveva chiesto il bis. La cosa si ripeteva tutte le volte che Daryll Earl entrava in campo a raccogliere i topolini. E lui aveva dovuto continuare a esibirsi per il resto della stagione.
Oggi i topolini di plastica sono vietati. Ma, anche se fossero stati imposti dallo Statuto Federale, nessuno li avrebbe più lanciati: i Panthers non segnavano più un punto dai tempi in cui a Miami c’era un sindaco onesto, in qualche momento del secolo scorso. Ma McHale si faceva ancora vedere, nella speranza di potersi esibire in un ultimo balletto davanti alle telecamere.
Alla conferenza stampa, LaGuerta giocò magnificamente su quel fatto, dando l’impressione che il ricordo della sua breve notorietà avesse condotto Daryll Earl all’omicidio. Naturalmente, con la sua fama di ubriacone e i suoi precedenti di violenza alle donne, era il sospetto ideale per questa serie di delitti stupidi e brutali. Ma le prostitute di Miami potevano dormire sonni tranquilli: niente più omicidi. Sotto la pressione soverchiante di un’indagine intensa e senza tregua, Daryll Earl aveva confessato. Caso chiuso. Si torna al lavoro, ragazze.
I giornalisti ci cascarono in pieno. Non li si poteva nemmeno biasimare, suppongo. LaGuerta aveva fatto del suo meglio per presentare una minima dose di fatti in un lucente involucro di convinzioni campate in aria. Avrebbe convinto chiunque. E, naturalmente, non si richiedono test di intelligenza ai giornalisti. Ciononostante, ogni tanto spero in un barlume e ci resto sempre male. Forse ho visto troppi film in bianco e nero, da ragazzino: mi aspetto sempre che il vecchio, cinico, disilluso ubriacone che lavora per il grande quotidiano della metropoli ponga una domanda imbarazzante che costringa gli investigatori a riesaminare daccapo le prove.
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