«Ci mettiamo a lavorare sulla verandina?»
«Sai macari che c’è una verandina?»
«Uffa!» fece Linda.
In linea teorica, la picciotta, a controllare i nomi della lista, che erano appena otto, avrebbe dovuto impiegarci massimo massimo una mezzorata.
Quanno s’assittarono sulla verandina non era manco mezzanotti, quanno Montalbano riaccompagnò Linda davanti al commissariato perché ripigliasse la sua machina, erano le cinco e mezzo del matino.
In conclusione, si corcò col proposito di farsi un due orate di sonno e invece s’arrisbigliò che erano le deci passate. Si fece una doccia presciosa, si radì lasciandosi mezza varba, si vistì di cursa e poco passate le unnici trasì in ufficio.
«Mandami Fazio» disse a Catarella.
Doppo tanticchia sentì tuppiare, ma invece di Fazio s’appresentò Mimì.
«Novità?» spiò Montalbano.
«Le solite cose. Due furti, una misteriosa sparatoria verso Piano Lanterna. E tu, novità?»
«E che novità vuoi che abbia io?»
«Mah!» fece Mimì taliandolo intensamente.
Trasì Fazio.
«Agli ordini, dottore. Come sta?»
Perché macari Fazio si mittiva a spiargli come stava, cosa che di solito non faciva mai?
«Bene. Perché me lo domandi?»
«Mah!» disse Fazio.
Mimì, va’ a sapìri pirchì, ridacchiò. Montalbano non gli dette conto. Tirò fora dalla sacchetta l’elenco dei nomi scritto da Micò e lo posò sul tavolo.
«Devo fare una premessa. Mi sono incontrato con la dottoressa Olinda Mastro, la psicologa di Laura, che mi è stata di grandissimo aiuto e non solo perché mi ha spiegato quello che le ha detto la picciliddra.»
«Non solo? E che altro aiuto t’ha dato?» spiò Mimì con la faccia ’nnuccenti di un angilo.
Macari stavolta Montalbano fece finta di nenti e contò ai due tutto, compresa la visita a casa Carmona.
«Ieri sera Linda, dato che in quella zona conosce praticamente tutti, ha esaminato con me questo elenco e…»
«Mi scusi, dottore, chi è Linda?» spiò Fazio.
«E la dottoressa Mastro, che si chiama Olinda ma che dagli amici si fa chiamare Linda» spiegò Mimì, carcando sulla parola “amici”, ma mantenendo sempre la faccia di un serafino.
«Ha esaminato questo elenco e ha cancellato cinque nomi» proseguì Montalbano non dando a vidiri la caldaia a vapore che gli cuturiava dintra e che potiva esplodere da un momento all’altro. «Si tratta di persone che mai e poi mai avrebbero a che fare con qualcosa d’illegale. Restano tre nomi: Bonito Gaspare, impiegato di banca, Arena Giacomo, trasportatore, e Zirretta Federico, impiegato. Oli… O… Li…»
«Oliolà» fece Mimì.
Montalbano, con una faticata enorme, arriniscì a non far esplodere la caldaia.
«Linda questi tre non li conosce. Dovremmo saperne di più.»
«Mi faccia vedere» fece Fazio allungando una mano.
Il commissario gli pruì l’elenco, Fazio lo taliò tanticchia e doppo disse:
«Questo Bonito Gaspare di anni cinquanta e abitante in via Cavour 32, è cassiere nella filiale che la Trinacria ha sul porto. Lo conosco da più di vent’anni e mi sento di garantire per lui. è l’onestà fatta pirsona.»
«Allora cancellalo» disse Montalbano. «E gli altri due?»
«Non li conosco. Ma rimedio subito» disse Fazio susendosi e mittendosi in sacchetta l’elenco.
Restati soli, Montalbano taliò a Mimì con ariata seria.
«Posso sapìri pirchì fai tanto lo spiritoso?»
«Pirchì io le cose che ci hai detto le sapevo già. Stamatina alle otto Linda ha fatto dettagliato rapporto telefonico a Beba.»
«E che le ha detto?»
«Beba non ha voluto aprire bocca, con me. Non c’è stato verso di farla parlare. Ma credo che Linda le abbia contato tutto quello che c’era da contare. è stata più di un’ora a telefonare e ogni tanto Beba rideva fino alle lagrime.»
«E che avevano tanto da ridere?» spiò Montalbano torvolo.
«Questo lo sanno Linda, Beba e tu. Quindi presumo che le ha detto macari cose che tu non ci hai riferito perché, a stretto rigor di termini, non riguardavano per niente l’indagine.»
E l’infame sorrise.
«Mimì, lo sai che ti dico, a stretto rigor di termini?» spiò Montalbano arraggiato.
«No.»
«Vaffanculo.»
C’era una petruzza nell’ingranaggio del suo ciriveddro che paralizzava il giro delle rote e delle rotelline. E fino a quando non la livava, quella pietruzza, non ci sarebbe stato verso di rimettere in moto il meccanismo. L’intoppo era il modo di procedere del sequestratore. Che cosa capitava nei rapimenti normali? Capitava che i sequestratori che dovivano aviri contatti con la pirsona sequestrata, provvedevano a infaccialarsi, ad ammucciarsi la faccia con un passamontagna o con una mascheratura qualisisiasi per non farsi arriconoscere dalla vittima che, una volta rilasciata doppo il riscatto, avrebbe potuto fornire agli inquirenti precisi identikit. E difatti, se durante un sequestro il prigioniero, o la prigioniera, vidiva, macari casualmente, la faccia di un carceriere, il suo destino era segnato. Sia pure con tante scuse, la pirsona viniva ammazzata. Da questa regola non si sgarrava.
E allora pirchì questa volta il rapitore di Laura non aviva pigliato nessuna precauzione e aviva agito a faccia scoperta? Pirchì Laura era una picciliddra di tri anni e le sarebbe stato difficile, se non impossibile, descrivere com’era fatto il rapitore? La ragione poteva macari essiri questa, ma comunque la facenna rappresentava un grosso azzardo. Tant’è vero che quanno aviva dovuto inseguire Laura, che era scappata dalla machina, l’omo era stato visto in faccia dai Bonsignore.
Però d’altra parte il sequestratore non avrebbe potuto agire se non a viso scoperto. In genere i rapimenti avvengono quanno c’è scuro e macari allora i rapitori fanno in modo di non essere riconosciuti. Qui, di necessità, tutto doviva avvenire alla luce del sole, macari se il sole era oscurato dalle nuvole. E perciò come faciva un omo ad aggirarsi in pieno jorno, in mezzo a una quantità di gente, indossando con grande disinvoltura un passamontagna? Era l’istisso che firriare con un cartello sul quale ci stava scritto: “Sto commettendo un sequestro”. Nenti, la picciliddra doviva essiri pigliata da uno che correva il rischio enorme di essiri arraccanosciuto da chiunque.
E allora: che cosa gli avivano detto o promisso a petto del rischio? Questo era il busillisi. Soldi? Ma non c’erano soldi che potivano compensare quel tipo d’azzardo. Garanzie? Di che?
E fu allora che gli tornò a mente quello che gli aviva detto Linda: non era un vero e proprio rapimento, ma un allontanamento momentaneo che doviva far nasciri l’idea di un sequestro. L’idea. La sensazione. L’impressione. Si figurò un dialogo immaginario (ma poi non tanto).
“Pensi un po’, commissario! La bambina si è persa, ma fortunatamente è stata raccolta da un pietoso automobilista, rimasto anonimo, che l’ha accompagnata in un posto sicuro. E noi che intanto ci disperavamo pensando a un rapimento!”
“Vogliono sporgere denunzia?”
“E perché? Per una sensazione? Per una impressione?”
Ecco che cosa avivano garantito al sequestratore: che non ci sarebbe stata nessuna denunzia, nessuna indagine, a patto che alla picciliddra non fosse capitato danno, pirchì, in caso di danno, macari casuale, nisciuno avrebbe potuto previdiri la reazione dei genitori. E infatti la denunzia non c’era stata pirchì non c’era motivo di farla. E l’indagine, che motivo aviva per essere fatta?
Ad ogni modo, la pietruzza era stata livata.
Stava per tornarsene a Marinella, col nirbuso di un doppopranzo perso in ufficio a sbrigare facenne senza importanza, quanno s’appresentò Fazio.
«Che mi sai dire su quei nomi?»
«Assai, dottore. E per non farla arraggiare, quello
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