Helen Nielsen
Notturno per la morte
Dal punto di vista di Casey la vita era un tiro mancino: inizio non richiesto, fine indipendente dalla propria volontà, e nulla tra i due che fosse degno neppure di una pesca di beneficenza. Però arrivava in un pacco, simile a una cravatta per Natale, e una volta aperto il pacco non si poteva più liberarsene.
Casey Morrow stava riflettendo di nuovo, ed era un brutto segno. Occorreva buttar giù un altro sorso.
“Ho bisogno di bere” consigliò a se stesso in tono grave (perché non c’era nessuno li attorno cui dar consigli) e trasse di tasca il suo ultimo denaro. Ormai non era più un malloppo di entità ragguardevole a causa dell’andazzo di tutto il pomeriggio, ma stese comunque due biglietti spiegazzati sul ripiano di vetro del tavolo e li scrutò per accertarsi. Due dollari. Ultimi rimasugli del Grosso Affare, e ciò significa che il whisky avrebbe dovuto agire più rapidamente di quanto non avesse fatto sino allora, se voleva raggiungere uno stato di felice oblio prima che i fondi sfumassero. Esistevano bar più economici — in quel campo era molto pratico, — ma per questo particolare Crepuscolo degli Dei occorreva quel che c’era di meglio in fatto di locali. Tavoli ricoperti di vetro, soffici cuscini, luci diffuse. Ora si trovava nel bar più buio che gli fosse mai capitato di vedere fuori dall’inferno, e anche là c’era stato.
Si sarebbe detto che non ci fosse anima viva, ma poi d’un tratto l’ombra confusa di un cameriere emerse dall’oscurità, l’attimo necessario per posare un altro whisky sul tavolo e scomparire con uno dei biglietti spiegazzati. I suoi passi erano attutiti dallo spesso tappeto, e dal semicerchio azzurrino del banco proveniva solo un lontano tintinnar di bicchieri. Casey non guardava il bar, che da quella distanza del resto non avrebbe potuto vedere, ma pur non vedendolo sapeva che era quasi deserto. In un locale elegante di Chicago è poca la gente che si fa un proposito di ubriacarsi nel primo pomeriggio, a meno che non voglia festeggiare un evento particolare, magari il proprio funerale. Proprio allora il sogno ebbe inizio.
— Posso sedermi?
La domanda non era stata preceduta da una frase d’approccio, ma non era troppo strano udire voci, date le circostanze. Cose che accadono. Casey riuscì con non poca difficoltà a distrarre la propria attenzione dal whisky per concentrare lo sguardo un poco più in alto, e, man mano che le ombre si diradavano, si chiedeva perché mai gli fosse occorso tanto tempo. Viso e figura di quella voce erano decisamente femminili e di primo ordine, e l’espressione con cui lei lo guardava non era certo indicata a chiarirgli le idee.
— Mi sembrate solo — aggiunse. — Tanto vale che uniamo le nostre solitudini.
Casey Morrow accettava quello che la sorte offriva, fosse bello, brutto o indifferente. Non che ne avesse sempre voglia, ma l’esperienza gli aveva insegnato che la sua opinione in merito non sarebbe comunque stata richiesta. E adesso era apparsa quella ragazza, indiscutibilmente bella. Il vocabolario di Casey era limitato, ma in simili casi trovava le parole adeguate. Mentre rimuginava per trovare una risposta adatta alla provocante proposta di lei, la ragazza prese posto sull’altro lato della nicchia, tanto vicina che le sue ginocchia sfiorarono quelle di lui. Intanto alle narici di Casey giungeva il profumo pungente dei capelli color miele. Si appoggiò allo schienale, illuminata dalla piccola lampadina da tavolo in modo da mettersi bene in evidenza, e lui ne approfittò per notare, tra l’altro, gli occhi color fumo e le labbra turgide, fresche.
Si chiedeva che cosa potesse volere una donna simile da Casey Morrow, un tipo non bello, che dimostrava più dei suoi trent’anni. Poi la sua bocca larga si torse” in un sorriso ironico, mentre stringeva con gesto quasi tenero l’ultima banconota spiegazzata.
— Mi dispiace — disse — ma questa è per me.
— Vi sembra gentile? — Lei non aveva battuto ciglio.
— È una questione economica… economia elementare. — L’ultima frase gli era riuscita difficile, e riprese quasi sillabando: — Bellezza, non c’è altro. È una triste verità, ma non c’è altro.
A questo punto, secondo ogni regola, la ragazza avrebbe dovuto ricordarsi di un impegno precedente e andarsene. Invece lei pareva seguire regole personali a seconda degli eventi. Gli occhi color fumo scrutarono il viso di lui, esaminandolo attentamente dai capelli scuri scomposti fino al mento quadrato, volitivo. All’esame di lei non sfuggi la cicatrice seminascosta dal sopracciglio, ricordo della mira poco esatta d’un giapponese, ed era prevedibile che non le sfuggisse neanche l’espressione insolente di quel sorriso sarcastico. Eppure non se ne andò.
— Vi dispiace se mi pago da bere? — chiese.
— Non mi dispiacerebbe neppure se pagaste anche per me, bellezza.
— Intesi, allora.
Lo disse come se nulla fosse. Casey si appoggiò allo schienale del divano e cercò di ottenere una prospettiva più chiara della situazione. Nulla di mutato. Era davvero seduta li, era davvero bellissima e stava davvero ordinando da bere anche per lui, assistita dal cameriere dall’occhio di falco.
— Rinuncio — disse. — A che gioco giochiamo?
— Ve l’ho già detto. Me ne stavo sola soletta al bar e mi sono stancata.
— Che razza di città è mai questa, se una ragazza come voi è assillata da un simile problema?
Quasi quasi sorrise, dando la netta impressione che il sorriso, se fosse veramente spuntato, sarebbe stato qualcosa di eccezionale, e intanto lo fissava come se in vita sua non avesse mai avuto nulla da nascondere. Sconcertante, ma non quanto la sua conversazione.
— Se lo desiderate potete parlarmene — stava dicendo.
— Parlarvi di che?
— Dei vostri guai.
— Ho dei guai?
— Tutti ne hanno, specialmente le persone come noi.
— E che gente siamo?
— È appunto questo uno dei nostri guai: non lo sappiamo.
Quella mocciosa — e non era altro, nonostante le lunghe ciglia e la bocca provocante — diceva le cose più impensate.
— Ora so chi siete! — Il tono di Casey era trionfante. — Appartenete a un’opera sociale. Il vostro visone mi aveva tratto in inganno, sulle prime. — Si trattava infatti di un visone che non rispondeva al concetto che si era fatto di lei, a meno che in quel quartiere non si facessero le cose in grande stile. Lei, poi, lo portava come se ci fosse abituata dalla nascita.
— Mi dispiace di sembrare uno zoticone — aggiunse. — Manco da tanto tempo dalla mia città, che mi sono arrugginito. Che cosa volete, esattamente?
— Avete una sigaretta?
Gliela diede, considerando che se l’era guadagnata, e lasciò che se l’accendesse col suo accendisigari incastonato di pietre, mentre l’osservava procedere tastando il terreno.
— Siete sospettoso, mi pare — gli disse. — Mi va, denota intelligenza.
— Grazie, signora maestra. Quando mi darete il premio?
— Non siate scontroso. Chissà, potrei essere la fortuna che bussa alla vostra porta.
— Non c’è pericolo. — Casey scrollò la testa. — L’ultima volta che la fortuna bussò alla mia porta la feci entrare. Ora non ho più neppure una porta.
— Era bella?
— Mi costò cara.
— La sposaste?
— Non mi costò cara fino a questo punto.
Poteva darsi che fosse frutto della sua fantasia, ma ebbe l’impressione che queste sue confidenze le garbassero molto. O l’aveva imbroccata oppure stava scivolando nello stato che fa parere felice il prossimo. Ogni volta che posava sul tavolo il bicchiere vuoto, uno pieno lo sostituiva. Tutto andava dunque a gonfie vele, finché il cameriere non s’impossessò del dollaro solitario. Per un momento, Casey fu sommerso da un’ondata di solennità, perché l’essere al verde, totalmente al verde, non è uno stato che vada preso con leggerezza, e il suo dolore era tale, che non riusciva a dissimularlo.
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