RAYMOND CHANDLER - TROPPO TARDI
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– Voi volevate che lo facessi, vero? – chiese con un sorriso paziente.
– Senz'altro volevate regalare i vostri spiccioli ai poveri bambini diseredati con le gambe storte e tanti altri mali, vero?
– E se non avessi voluto? – chiesi.
– Ripescherei i sette centesimi – spiego la ragazza. – E sarebbe molto penoso. – Aveva una voce bassa e lenta, umidamente carezzevole, come un asciugamani bagnato. Infilai un quarto di dollaro, dietro ai sette centesimi. La ragazza mi gratifico del suo sorriso piu smagliante, allora, offrendomi una prospettiva ancor piu vasta delle sue tonsille.
– Siete una brava persona – disse. – Si vede subito. Una quantita di giovanotti sarebbero entrati qua dentro e avrebbero tentato di fare gli sporcaccioni. Pensate un po'. Per sette centesimi.
– Chi e il poliziotto dell'albergo? – le domandai, senza accogliere l'implicito invito.
– Ce ne sono due. – La ragazza compi un'operazione imprecisata, ma lenta ed elegante, nei paraggi della nuca, mettendo in mostra un numero che mi parve esorbitante di unghie rosso-sangue.
– Il signor Hady di notte, e il signor Flack di giorno. Adesso e giorno, quindi dev'essere di servizio il signor Flack.
– Dove potrei trovarlo?
La commessa si chino sul banco, permettendomi di odorarle i capelli, e indico il gruppo degli ascensori con un'unghia lunga un paio di centimetri.
– Ha l'ufficio in quel corridoio, laggiu, vicino alla stanza del custode. La stanza del custode dovete notarla per forza perche ha una porta a due battenti, con sopra scritto "Custode" a lettere d'oro. Solo che adesso un battente e aperto, quindi forse non la potete vedere.
– La vedro – l'assicurai. – A costo di scardinarmi il collo. Che aspetto ha Flack?
– Be'… e un ometto tozzo, coi baffi. Tipo tarchiato. Robusto, ma non molto alto. – Le sue dita si mossero languidamente sul banco e si fermarono in un punto dove avrei potuto arrivare a toccarle senza fare i salti mortali. – Non e interessante. Perche occuparsene?
– Affari – spiegai, e me la battei, prima che mi agguantasse con una presa di lotta.
Quando arrivai agli ascensori mi voltai. La commessa mi seguiva con lo sguardo, con un'espressione che, senza dubbio, lei avrebbe definito pensosa.
La stanza del custode era a meta del corridoio che dava su Spring Street.
La porta attigua era semiaperta. Sbirciai dentro poi entrai, e mi richiusi il battente alle spalle.
Un uomo era seduto davanti a una piccola scrivania che reggeva un enorme portacenere, molta polvere e quasi nient'altro. Era basso e tarchiato.
Sotto al naso aveva una specie di spazzolino, scuro e irsuto, lungo due centimetri abbondanti. Mi sedetti di fronte a lui e posai il mio biglietto da visita sul piano della scrivania.
Lui lo prese senza emozione, lo lesse, lo volto, e lesse il retro con la stessa attenzione. Non c'era assolutamente nulla da leggere, dietro. Poi prese un mezzo sigaro, dal portacenere, e si scotto il naso accendendolo.
– Qualcosa che non va? – mi chiese con un brontolio sordo.
– Va tutto bene. Siete Flack?
Non si prese il disturbo di rispondere. Mi incollo addosso uno sguardo, che avrebbe potuto nascondere i suoi pensieri o anche no, sempre che avesse avuto dei pensieri.
– Vorrei saper qualcosa d'uno dei vostri clienti – dissi.
– Nome? – chiese Flack, senza entusiasmo.
– Non so che nome abbia usato, qui. Sta nella camera trentadue al terzo piano.
– Che nome usava, prima di venir qui? – volle sapere Flack.
– Non so nemmeno quello.
– Be', che aspetto ha? – Flack era pieno di sospetti, ora. Rilesse il mio biglietto da visita, ma non apprese niente di nuovo.
– Non l'ho mai visto, ch'io sappia.
– Devo aver lavorato troppo – dichiaro il mio collega. – Non arrivo a capire.
– Mi ha telefonato – spiegai. – Ha detto che voleva vedermi.
– Ve lo impedisco, forse?
– Datemi retta, Flack. Nel nostro mestiere ci si fanno dei nemici, alle volte. Dovreste saperlo. Ora, questo tizio ha un incarico da darmi. Mi dice di venire qui, si dimentica di dirmi come si chiama e mette giu il telefono.
Cosi ho pensato di fare un piccolo controllo, prima di salire.
Flack si tolse il sigaro di bocca, e sospiro con aria paziente:
– Sono in condizioni disastrose. Non ho ancora capito. Niente ha piu senso, per me.
Mi chinai sulla scrivania, e dissi adagio, molto chiaramente:
– Tutta la faccenda potrebbe essere un sistema pratico ed efficace per attirarmi in una camera d'albergo, farmi la pelle e poi uscire tranquillamente dalla comune. Voi non vorreste che una cosa simile accadesse al vostro albergo, vero, Flack?
– Ammesso che la cosa mi interessi – fece lui. – Siete proprio convinto d'esser cosi importante?
– Fumate quel pezzo di vecchia gomena perche vi piace o perche credete che vi dia un'aria coriacea?
– Per quarantacinque dollari alla settimana, come faccio a fumare qualcosa di meglio? – domando Flack, e mi fisso intensamente.
– Niente conto spese – l'informai. – Non ho ancora fatto l'affare.
Lui emise un'esclamazione di tristezza, si alzo stancamente e usci dalla stanza. Accesi una sigaretta e aspettai. Flack torno di li a poco e lascio cadere sulla scrivania una schedina di registrazione. Sopra c'era scritto, a inchiostro, da una mano ferma e tondeggiante: Dr. G. W. Hambleton. El Centro. California. L'impiegato aveva preso nota di altre cose, ivi compreso il numero della camera e la retta giornaliera. Flack mi indico qualcosa, con un dito che aveva gran bisogno d'una manicure, o almeno di uno spazzolino per le unghie.
– E arrivato alle due e quarantasette pomeridiane – annuncio. – Proprio oggi, insomma. Non c'e ancora segnato niente sul suo conto. Ha pagato la retta di un giorno. Niente telefonate. Niente di niente. Che cosa volete?
– Che aspetto ha?
– Non l'ho visto. Credete che me ne stia fuori, vicino al banco e prenda fotografie di tutti i clienti che si presentano?
– Grazie – dissi. – Dottor G. W. Hambleton, El Centro. Molto obbligato. – E gli restituii la schedina.
– Qualsiasi informazione vi occorra, se posso… – disse Flack mentre uscivo – non dimenticatevi dove vivo. Cioe, se per voi questa e vita.
Accennai di si e me ne andai. Capitano, i giorni cosi. Tutti quelli che si incontrano sono suonati. Finisce che ci si guarda nello specchio e ci si domanda…
La camera trentadue era sul retro dell'edificio, vicino alla porta della scala di soccorso. Il corridoio che vi conduceva puzzava di tappeti vecchi, di olio da mobili e della tetra anonimita di mille vite meschine. Il secchiello di sabbia, sotto all'estintore era pieno di mozziconi di sigari e sigarette, una collezione che risaliva a parecchi giorni. Da uno sfiatatoio aperto veniva la musica assordante di una radio. Dietro un altro sfiatatoio alcune persone ridevano da farsi venire le convulsioni. In fondo, nelle vicinanze della camera trentadue tutto era tranquillo.
Bussai: due colpi lunghi e due brevi, secondo le istruzioni. Non accadde nulla. Mi sentivo vecchio e sfinito. Mi sentivo come se avessi passato tutta la vita a bussare alle porte degli alberghi di quart'ordine, dove nessuno si prendeva il disturbo di aprire. Riprovai a bussare. Poi girai la maniglia ed entrai. Una chiave, con un cartellino rosso di fibra era infilata nella toppa, dalla parte interna.
Ero in una piccola anticamera, con uno stanzino da bagno sulla destra.
Oltre l'anticamera si intravedeva la meta superiore di un letto, con un uomo che dormiva, in calzoni e maniche di camicia.
– Il dottor Hambleton? – chiesi ad alta voce.
L'uomo non rispose. Oltrepassai la porta del bagno, per andargli vicino.
Un'ondata di profumo mi investi, ed io feci per voltarmi, ma troppo tardi.
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