RAYMOND CHANDLER - TROPPO TARDI
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A un tratto sorrisi, mi chinai sul morto, di scatto, e conservando sempre il mio sorriso, per fuori luogo che fosse, gli sfilai il parrucchino e lo rovesciai. Era cosi semplice. Un foglietto di carta color arancio protetto da un quadretto di cellophane era attaccato alla fodera delia parrucca con due pezzi di carta gommata. Lo staccai, lo voltai e vidi che si trattava di uno scontrino del negozio "Tutto per la foto" di Bay City. Lo riposi nel mio portafogli e calzai di nuovo, con cura, la parrucca sulla testa pelata come un uovo.
Lasciai la porta chiusa con la sola maniglia, perche non c'era modo di chiuderla a chiave.
Fuori la radio vociava sempre dallo sfiatatoio e le risa degli ubriachi, dall'altra parte del pianerottolo, le facevano l'accompagnamento.
CAPITOLO IX
Al telefono l'impiegato di "Tutto per la foto" mi disse:
– Si, signor Hicks. Sono pronte. Sei ingrandimenti su carta lucida, dalla vostra negativa.
– A che ora chiudete? – domandai.
– Oh, fra cinque minuti, circa. Apriamo alle nove di mattina.
– Allora verro a ritirarle domattina. Grazie.
Appesi la cornetta, portai automaticamente la mano alla fessura e trovai un nichelino, dimenticato da chissa chi. Andai al bar, e col nichelino mi pagai una tazza di caffe. Rimasi seduto, a sorseggiarlo e ad ascoltare i clackson delle automobili, che si lagnavano nella via. Era l'ora di rincasare.
Stridevano fischietti. Rombavano motori. Vecchi freni cigolavano. Sul marciapiedi risonava uno scalpiccio tetro, costante. Erano le cinque e mezzo, appena passate. Terminai il caffe, riempii la pipa e mi incamminai lentamente verso l'albergo Van Nuys, a mezzo isolato di distanza. Nella sala di scrittura infilai lo scontrino arancione del fotografo in una busta intestata dell'albergo e l'indirizzai a me stesso. Vi applicai un francobollo espresso e la lasciai cadere nella cassetta delle lettere, vicino agli ascensori. Poi tornai nell'ufficio di Flack.
Di nuovo richiusi la porta, e di nuovo mi sedetti di fronte a lui. Pareva che Flack non si fosse mosso d'un centimetro. Masticava con aria assente lo stesso mozzicone di sigaro e i suoi occhi erano ancora pieni di nulla.
Riaccesi la pipa sfregando un cerino contro il fianco della sua scrivania.
Lui si acciglio.
– Il dottor Hambleton non risponde – annunziai.
– Che? – Flack mi guardo con aria vacua.
– Il cliente del numero trentadue. Ricordate? Be', non risponde.
– Che cosa dovrei fare? Mettermi a piangere?
– Ho bussato varie volte – spiegai. – Nessuna risposta. Ho pensato che stesse facendo il bagno o qualcosa di simile, per quanto non si sentisse niente, e sono andato a fare un giretto. Poi sono tornato e ho riprovato. Di nuovo nessuna risposta.
Flack consulto un orologio a cipolla che aveva tratto dal panciotto. – Termino alle sette – brontolo. – Gesu, ancora un'ora, e passa… Ragazzi, che fame!
– E naturale – osservai. – Lavorando come lavorate… Dovete mantenervi in forze. Sono riuscito ad attirare la vostra attenzione sulla camera trentadue?
– Avete detto che il cliente non c'era – replico Flack, irritato. – E con questo? Non c'era.
– Non ho detto che non c'era – rettificai. – Ho detto che non rispondeva alla porta.
Flack si chino in avanti. Con estrema lentezza si tolse di bocca gli avanzi del sigaro e li depose nel portacenere di vetro.
– Continuate. Cercate di interessarmi – disse con aria cauta.
– Forse vi puo far piacere venir di sopra a dare un'occhiata – dissi. – Forse e un pezzo che non vedete un lavoro di scalpello di prim'ordine.
Flack poso le mani sui braccioli della sedia, e strinse forte il legno.
– Ouu! – disse dolorosamente – ouuu!
Si tiro in piedi e aperse il cassetto della scrivania. Ne trasse un grosso revolver nero, aperse il cilindro, controllo i proiettili, sbircio nell'interno della canna, richiuse il cilindro di scatto. Si sbottono il panciotto e infilo la rivoltella ben fonda dentro la cintura dei calzoni. In caso di emergenza probabilmente sarebbe riuscito a tirarla fuori in poco meno di sessanta secondi. Si pianto il cappello in testa, con fermezza, e mi indico la porta col pollice.
Salimmo al terzo piano in silenzio. Percorremmo il corridoio. Nulla era cambiato. Nessun suono era aumentato o diminuito di volume. Flack si affretto verso il numero trentadue e busso, per forza dell'abitudine. Poi tento la maniglia. Dopo di che si volto a guardarmi, con la bocca contratta.
– M'avete detto che la porta non era chiusa a chiave – si lagno.
– Non ho detto precisamente questo. Pero non era chiusa a chiave.
– E ora lo e – annunzio Flack tirando fuori una chiave appesa a una lunga catena. La fece girare nella serratura e guardo, su e giu, lungo il corridoio. Giro la maniglia lentamente, senza rumore, e aperse la porta, di qualche centimetro. Rimase in ascolto. Dall'interno non venne alcun suono. Flack fece un passo indietro e sfilo il revolver nero dalla cintura. Trasse la chiave dalla serratura, e spalanco il battente con una pedata alzando la canna dell'arma lentamente, con la cupa decisione di uno sbirro da operetta.
– Andiamo – ordino, lasciando cadere le parole da un angolo della bocca.
Da sopra la sua spalla constatai che il dottor Hambleton non si era mosso d'un millimetro; il manico dello scalpello, pero, non era visibile dall'ingresso. Flack si curvo in avanti ed avanzo cautamente. Arrivo alla porta del bagno, accosto un occhio allo spiraglio, poi spinse il battente cosi forte che lo fece rimbalzare contro la vasca. Entro nello stanzino, ne usci, e passo decisamente in camera da letto: un uomo cauto, energico che non correva rischi inutili.
Poso la mano sulla maniglia dell'armadio a muro, mise in posizione la pistola e spalanco il battente di violenza. Niente sospetti, nell'armadio a muro.
– Guardate sotto al letto – consigliai.
Flack si chino rapidamente e guardo sotto al letto.
– Guardate sotto al tappeto – soggiunsi.
– Mi prendete per il naso? – domando con aria cattiva.
– Mi piace il vostro modo di lavorare, ecco tutto.
Lui si chino sul morto e studio lo scalpello da ghiaccio.
– Qualcuno ha chiuso a chiave quella porta – osservo in tono sprezzante. – A meno che voi mentiate, dicendo che era aperta.
Non feci commenti.
– Be', immagino che bisognera chiamare la polizia – concluse Flack lentamente. – Questo altarino non lo si puo proprio coprire.
– Non e colpa vostra – lo consolai. – Succede nei migliori alberghi.
CAPITOLO X
Il dottorino dai capelli rossi compilo il certificato di morte e aggancio la stilografica al taschino del camice bianco. Poi chiuse il blocchetto dei moduli ridacchiando.
– Midollo spinale lacerato immediatamente sotto all'occipite, – dichiaro, con aria distratta. – Un punto molto vulnerabile. Per chi lo sa trovare, beninteso. E io son certo che voi lo trovereste.
Il tenente Christy French, della squadra omicidi mugolo:
– Credete che sia la prima volta che vedo qualcosa del genere?
– No, forse no – concesse il dottorino. Diede un'ultima, rapida occhiata al cadavere giro sui tacchi e lascio la stanza. – Faro venire il magistrato – disse senza voltarsi.
La porta si chiuse alle sue spalle.
– Per i medici, un morto ha l'importanza che ha per me un piatto di cavoli riscaldati – commento Christy French in tono acido, rivolto all'uscio chiuso. Il suo socio, un altro tenente che si chiamava Fred Beifus, se ne stava con un ginocchio al suolo, vicino alla scatola del telefono. L'aveva spruzzata di polvere per le impronte digitali, aveva soffiato via la polvere di troppo e ora stava osservando una macchia con una piccola lente di ingrandimento. Scosse il capo, poi sfilo qualcosa dalla molla di chiusura.
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