RAYMOND CHANDLER - TROPPO TARDI

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– E va bene – dissi infine. – Ammetto che si tratta d'una donna.

Ammetto persino che e entrata in quella camera quando Hambleton era gia morto, se vi puo far piacere. Dev'essere stata l'emozione, a farla scappar via cosi.

– Ma sicuro – convenne Flack, con aria odiosa. La sua smorfia grassa e ironica era tornata a casa del tutto, ora. – O forse era un mese che non scannava piu nessuno con uno scalpello da ghiaccio. Aveva un po' perso lo stile…

– Ma perche portare via la chiave della camera? – chiesi, come parlando a me stesso. – E perche lasciarla al portiere? Perche non se ne e andata, piu semplicemente, piantando tutto come stava? Come mai si e ritenuta in dovere di chiudere la porta? Perche non gettare la chiave in una sputacchiera e coprirla con la sabbia? Oppure portarsela dietro, e perderla, da qualche parte? Perche occuparsi comunque, di quella chiave, che avrebbe provato la sua presenza nella stanza del delitto? – Abbassai gli occhi e fissai Flack con uno sguardo intenso, duro, immobile. – A meno che, naturalmente, qualcuno l'abbia vista lasciare la stanza con le chiavi in mano, e l'abbia seguita fuori dall'albergo.

– E perche l'avrebbe fatto, quel "qualcuno"? – chiese Flack.

– Perche la persona che l'ha vista ha potuto entrare in quella stanza quasi subito dopo di lei. Aveva un passe-partout.

Gli occhi di Flack si alzarono su di me e tornarono ad abbassarsi, in un solo movimento.

– Cosi, quella persona deve aver seguito la ragazza – continuai. – Deve averla vista lasciare la chiave al banco del portiere e uscire dall'albergo, e deve averla seguita per un tratto di strada.

– Come fate ad essere cosi meravigliosamente astuto? – chiese Flack, in tono di scherno.

Mi sporsi in avanti e tirai il telefono verso di me.

– Mi conviene chiamare Christy e farla finita, una volta per tutte – dissi. – Piu ci penso e piu ho paura. Forse Hambleton l'ha accoppato davvero la ragazza. Non posso proteggere un'assassina.

Sollevai il ricevitore dalla forcella. La zampa sudaticcia di Fk ck mi piombo di violenza sul dorso della mano. Il ricevitore rimbalzo sulla scrivania.

– Lasciate stare – la sua voce era quasi un singhiozzo. – L'ho seguita fino a una macchina, ferma in fondo alla strada. Ho preso il numero. Per l'amor di Dio, lasciatemi una via d'uscita, amico… Una via qualsiasi. – Stava frugandosi in tasca freneticamente. – Sapete quanto prendo, con questo lavoro? Quel che mi basta per le sigarette e stop. Quasi nient'altro.

Su, aspettate un minuto. Credo… – Abbasso lo sguardo, gioco un solitario con alcune buste unte, e finalmente ne scelse una e me la getto. – Ecco la targa – disse in tono stanco. – E se puo farvi piacere vi diro che non mi ricordo piu nemmeno che numero e.

Diedi un'occhiata alla busta. C'era effettivamente scarabocchiato un numero d'automobile. Il tratto era malfermo, esile, sbilenco, proprio come quando si scrive frettolosamente, in strada, col solo foglio in mano. Diceva: 6N333. California 1947.

– Soddisfatto? – Era la voce di Flack. Per lo meno il suono era uscito dalla sua bocca.

Strappai via il lembo col numero, e gli gettai indietro la busta. – 4P 327 – dissi, studiando attentamente i suoi occhi. Nessuna luce improvvisa gli si accese nelle pupille. Non vidi tracce di ironia, di finzione. – Ma come faccio, io, a sapere che non si tratta d'un numero che avevate gia in tasca?

– Dovete contentarvi della mia parola.

– Descrivetemi la macchina.

– Cadillac trasformabile. Non nuova. Col soffietto chiuso. Modello del quarantadue o giu di li. Di un colore azzurro-polvere.

– Descrivetemi la donna.

– Prendete parecchio per i vostri quattrini, eh, bel giovane?

– Per i quattrini del dottor Hambleton.

Lui strabuzzo gli occhi.

– E va bene. Bionda. Soprabito bianco con le cuciture degli orli colorate. Cappello grande, di paglia azzurra. Occhiali neri. Alta circa uno e sessanta. Una figura che fa scintille.

– La riconoscereste, senza occhiali? – chiesi con una certa prudenza.

Lui fece finta di pensare. Poi scosse il capo: no.

– E allora, volete ripetermi quel numero di targa, Flack?

L'avevo preso alla sprovvista.

– Quale numero?

Mi chinai in avanti e lasciai cadere un po' di cenere sulla sua rivoltella.

Poi lo fissai di nuovo negli occhi, intensamente. Ma ormai sapevo di averlo battuto. Pareva che lo sapesse anche lui. Prese il revolver, soffio via la cenere e lo ripose in un cassetto.

– Avanti, correte – sibilo tra i denti. – Andate a dire ai poliziotti che ho perquisito il morto. E con questo? Forse perdo l'impiego. Forse anche mi sbattono dentro. E con questo? Quando esco sono a posto. Il caro piccolo Flack non dovra piu preoccuparsi, per il pane e il companatico. Non vi sognate che quei paraocchi neri l'abbiano ingannato per un momento, il caro piccolo Flack. Sono andato troppo al cinema per non riconoscere quella bella bambolina. E se volete il mio parere vi diro che la vedremo ancora per un pezzo. E destinata a far carriera… e chissa… – mi lancio un sorriso trionfante… – forse, uno di questi giorni, avra bisogno di una guardia del corpo. Di un brav'uomo sempre a sua disposizione, che tenga d'occhio le cose, e che le impedisca di mettersi nei guai. Qualcuno che abbia una certa influenza e non sia irragionevole, in fatto di danaro… Che c'e?

Avevo chinato il capo da un lato e m'ero curvato in avanti, in ascolto.

– Mi era parso di sentire la campana di una chiesa – spiegai.

– Non ci sono chiese, da queste parti – annunzio Flack, con disprezzo:

– Sara il vostro cervellone di platino, che si riempie di crepe.

– Una campana sola – continuai. – Molto lenta. A morto.

Flack ascolto, con me.

– Non sento nulla – disse aspramente.

– Oh, non e possibile che la sentiate – esclamai. – Voi siete l'unica persona al mondo che non la puo sentire.

Non mi rispose. Rimase seduto, a fissarmi, coi piccoli occhi malvagi semichiusi, coi piccoli baffi malvagi che luccicavano, aggressivamente.

Una mano gli si contrasse sullo scrittoio, in un gesto senza senso.

Lo lasciai ai suoi pensieri che, probabilmente, erano piccoli, brutti e spauriti come lui.

CAPITOLO XI

La casa-albergo era in Doheny Drive, ai piedi della collina, sotto lo Strip. In realta si trattava di due edifici, collegati da un patio pieno di fiori, con una fontana nel mezzo, e una stanza costruita proprio sopra l'arco. Nel vestibolo di finto marmo c'erano le cassette delle lettere coi campanelli.

Tre su sedici non portavano nome. I nomi che lessi non significavano niente, per me. Tentai la porta d'ingresso, e scopersi che non era chiusa a chiave, ma nonostante questo l'impresa richiedeva del lavoro supplementare.

Fuori in strada c'erano due Cadillac, una Lincoln Continental e una Packard Clipper. Nessuna delle Cadillac aveva il numero giusto o la tinta giusta. Dall'altro lato della via un tale in calzoni alla cavallerizza era sdraiato in una Lancia molto bassa, e spenzolava le gambe oltre lo sportello. Fumava e guardava in su, verso le stelle pallide che hanno abbastanza buon senso da tenersi lontano da Hollywood. M'incamminai lungo la ripida collina, verso il boulevard, percorsi un isolato e mi chiusi in una cabina telefonica stradale che pareva un bagno turco. Composi il numero di un tale, che tutti chiamano Peoria Smith perche balbetta… un altro piccolo mistero che non ho mai trovato il tempo di risolvere.

– Mavis Weld – gli dissi. – Voglio il numero di telefono. Parla Marlowe.

– S-s-s-icuro – rispose. – M-m-m-avis Weld, eh? Vuoi il s-s-s-uo nn-n-umero?

– Quanto?

– F-f-f-facciamo dieci d-d-d-ollari.

– Dimentica che t'ho chiamato.

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