RAYMOND CHANDLER - TROPPO TARDI

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Una donna, che era stata nascosta nella stanza da bagno era apparsa improvvisamente, reggendosi un asciugamano davanti alla parte inferiore del viso. Sopra l'asciugamano un paio di occhiali neri. Poi l'ala di un cappello di paglia a larghe tese, di un color azzurro pervinca un po' smorzato. Sotto la tesa una massa di capelli biondi, rigonfi. Due orecchini a bottone azzurri scintillavano in un punto imprecisato, nell'ombra. Gli occhiali da sole avevano una montatura bianca con le stanghette piatte, molto larghe. L'abito era della stessa sfumatura del cappello. Sopra, la ragazza indossava un soprabito di seta o di rayon ricamato, aperto. Portava un paio di guanti piuttosto lunghi, e nella mano destra, stringeva un'automatica. Coll'impugnatura di osso bianco. Pareva una trentadue.

– Voltatevi e portate le mani dietro la schiena – ordino, da dietro l'asciugamano. La voce, soffocata dalla stoffa, non significava niente, per me, come gli occhiali neri. Non era la voce che mi aveva parlato al telefono. Non mi mossi.

– Non crediate che scherzi – continuo la ragazza. – Vi do esattamente tre secondi per obbedirmi.

– Non potreste fare un minuto? Mi piace guardarvi.

Lei fece un gesto minaccioso con la rivoltella.

– Voltatevi – comando. – E alla svelta.

– Anche la vostra voce mi piace.

– Benissimo – fece in tono pericoloso. – Se preferite cosi, e affar vostro.

– Non dimenticatevi che siete una signora – dissi e mi voltai, portandomi le mani alle spalle. La bocca della pistola mi premette contro la nuca.

Il fiato della ragazza mi sfiorava, per poco non mi faceva il solletico. Il suo profumo era di una marca elegante: non forte, ma deciso. La rivoltella si scosto dal mio collo e, per un istante, una fiamma candida mi arse negli occhi. Emisi un gemito soffocato, caddi carponi e portai rapidamente le mani all'indietro. Le mie dita sfiorarono una gamba inguainata di nylon, ma scivolarono via subito, e mi parve un peccato. Al tatto la si sarebbe detta una bella gamba. Una seconda botta in testa cancello ogni piacere da questa esperienza ed io emisi il gemito rauco di un uomo in condizioni disperate. Mi afflosciai sul pavimento. La porta si aperse. Una chiave tintinno. La porta si chiuse. La chiave giro. Silenzio.

Mi alzai e passai nello stanzino da bagno. Mi inumidii la nuca con un asciugamano intriso d'acqua fredda. Avevo l'impressione di esser stato colpito col tacco d'una scarpa. Certo non era stato il calcio di una rivoltella. Il taglio aveva sanguinato un poco, ma non gran che. Sciacquai l'asciugamano e rimasi impalato, a tastarmi l'escoriazione e a chiedermi come mai non avessi rincorso la ragazza urlando. Ma piu che altro stavo fissando l'armadietto farmaceutico, sopra il lavabo. La parte superiore di un barattolo di talco era stata scalzata via. – C'era talco su tutto il piano della mensola. Un tubo di dentifricio era stato sventrato. Qualcuno era andato in cerca di qualche cosa.

Tornai nella piccola anticamera e mossi la maniglia della porta. Era chiusa a chiave, dall'esterno. Mi chinai e guardai dal buco della chiave. Era una serratura doppia, di quelle con la toppa esterna e quella interna a diversi livelli. La ragazza dagli occhiali scuri non era molto esperta, in fatto di alberghi. Girai lo scrocco per la notte, che apriva la serratura esterna, spalancai la porta, diedi un'occhiata al corridoio vuoto e tornai a chiudere.

Poi mi diressi verso l'uomo sul letto. Non si era mosso, in tutto quel tempo, per una ragione piuttosto evidente.

Al di la della piccola anticamera il locale si allargava, verso due finestre, dalle quali il sole entrava obliquo, come una lama che quasi tagliava il letto, e andava a posarsi subito sotto il collo del dormiente. L'oggetto sul quale il sole indugiava era bianco e azzurro, tondo e lustro. L'uomo giaceva placidamente quasi bocconi, con le mani lungo i fianchi, e senza scarpe.

Aveva una guancia affondata nel cuscino e pareva riposare profondamente.

Portava la parrucca. Quando l'avevo visto l'ultima volta si chiamava George W. Hicks. Ora era il dottor G. W. Hambleton. Le stesse iniziali. Non che la cosa avesse importanza, ormai. Non gli avrei parlato mai piu. Non c'era sangue. Nemmeno una goccia. E uno dei pochi lati simpatici di un lavoretto di scalpello eseguito da un professionista.

Gli toccai il collo. Era ancora caldo. In quel momento lo spiraglio di sole lascio il manico dello scalpello, e si sposto nelle vicinanze dell'orecchio sinistro. Mi voltai a osservare la stanza. La scatola del telefono era stata aperta, e nessuno l'aveva piu richiusa. La Bibbia dell'albergo era finita in un angolo, la scrivania era stata perquisita. Andai all'armadio a muro e vi guardai dentro. Conteneva alcuni abiti e una valigia che avevo gia vista.

Non trovai nulla che mi paresse importante. Raccolsi un cappello floscio dal pavimento, lo deposi sulla scrivania e tornai nello stanzino da bagno.

L'unico punto interessante consisteva nello scoprire se le persone che avevano pugnalato il dottor Hambleton avessero trovato quel che cercavano; avevano avuto ben poco tempo, a disposizione.

Perquisii lo stanzino da bagno con molta cura. Tolsi il coperchio al serbatoio dell'acqua del gabinetto e vi guardai dentro. Non vidi nulla. Sbirciai giu, lungo il canale di scarico. Non c'era nessun filo con un oggetto minuscolo appeso in fondo. Perquisii il cassettone. Conteneva solo una vecchia busta. Sganciai gli scuri delle finestre e tastai per di sotto i davanzali. Raccolsi la Bibbia e la sfogliai di nuovo. Esaminai il retro dei quadri e studiai il bordo del tappeto. Era inchiodato al muro e c'erano delle coppette di polvere, nelle depressioni lasciate dai chiodi. Mi inginocchiai sul pavimento ed esaminai la parte di tappeto che passava sotto al letto. Era identica al resto. Montai in piedi su una sedia e guardai nella boccia del lampadario.

Conteneva polvere e falene morte. Esaminai il letto. Era stato rifatto da una persona del mestiere e non era piu stato toccato. Tastai il cuscino, sotto la testa del morto, poi trassi un altro cuscino dall'armadio a muro ed esaminai le cuciture. Niente.

La giacca del dottor Hambleton pendeva dallo schienale di una sedia. La perquisii, sapendo benissimo che era il posto meno probabile per trovarvi qualcosa. Qualcuno, con un coltello, si era dato da fare con la fodera e le imbottiture delle spalle. Nelle tasche c'erano fiammiferi, un paio di sigari, un paio di occhiali scuri, un fazzoletto da dozzina, pulito, un biglietto d'un cinema di Bay City, un pettinino e un pacchetto di sigarette nuovo. Lo guardai bene, alla luce. Non mostrava segni di manomissione. Lo manomisi io. Strappai l'involucro, lo feci passare tutto e non trovai che sigarette.

Cosi restava solo il dottor Hambleton in persona. Gli passai le mani sopra e gli frugai nelle tasche dei calzoni. Qualche spicciolo, fiammiferi, un mazzo di chiavi, un volantino con gli orari degli autobus. In un portafogli di cinghiale c'era un libriccino di francobolli, un secondo pettine (ecco un uomo che trattava con vero amore il suo parrucchino!), tre bustine d'una polvere bianca, sette biglietti da visita che dicevano: Dottor G. W. Hambleton. Tustin Palace, El Centro, California. Ore 9-12, 14-16, e per appuntamento. Telefono El Centro 50406. Niente patente di guida, niente assicurazione sulla vecchiaia o sulla vita, niente che lo potesse identificare veramente. Il portafogli conteneva centosessantaquattro dollari in banconote. Lo riposi dove l'avevo trovato.

Presi il cappello del dottor Hambleton dalla scrivania ed esaminai la fascia interna e il nastro. Il nodo, era stato staccato con un temperino, e aveva lasciato una riga di fili penduli. Dentro non c'era niente. Non vidi segni di scuciture e ricuciture antecedenti.

Questo era tutto. Se gli assassini sapevano quel che cercavano doveva trattarsi di una cosa che poteva essere contenuta in una scatola di telefono, in un tubo di dentifricio o nel nastro di un cappello. Tornai nello stanzino da bagno e mi esaminai di nuovo il taglio. Perdeva ancora un sottile filo di sangue. Applicai dell'altra acqua fredda, e mi asciugai con un po' di carta igienica, che dopo buttai nel gabinetto e feci sparire, tirando la catena. Poi passai in camera da letto e rimasi un lungo istante a fissare il dottor Hambleton, chiedendomi che errore poteva aver commesso. Mi era parso un individuo con la testa sul collo. Il sole si era spostato al capo estremo della stanza, ora, aveva lasciato il letto e si era rifugiato in un angolo triste e polveroso.

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