Italo Svevo - Senilità

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Italo Svevo

SENILIÀ

Prefazione alla seconda edizione

Senilità fu pubblicata dapprima ventinove anni or sono nelle appendici del nostro glorioso Indipendente. Poi, nello stesso anno 1898, presso la Libreria Ettore Vram, in un’edizione ch’è ormai totalmente esaurita.

Questo romanzo non ottenne una sola parola di lode o di biasimo dalla nostra critica. Forse contribuì al suo insuccesso la veste alquanto dimessa in cui si presentò. Altrimenti sarebbe difficile di spiegare tanto silenzio dopoché il romanzo Una vita, da me pubblicato sei anni prima, e ch’era certamente inquinato da almeno altrettanti difetti, s’era saputo conquistare l’attenzione di parecchi critici, fra i quali Domenico Oliva che la espresse con parole abbastanza lusinghiere. Anzi fu la lode di un sì autorevole critico che m’incorò alla pubblicazione di questo secondo romanzo, il quale fu poi ignorato anche da lui, che pur certamente lo aveva ricevuto.

Mi rassegnai al giudizio tanto unanime (non esiste un’unanimità più perfetta di quella del silenzio), e per venticinque anni m’astenni dallo scrivere. Se ci fu errore, fu errore mio.

Questa seconda edizione di Senilità fu resa possibile da una parola generosa di James Joyce, che per me, come poco prima per un vecchio scrittore francese (Edoardo Dujardin), seppe rinnovare il miracolo di Lazzaro. Che uno scrittore, sul quale incombe imperiosa l’opera propria, abbia saputo più volte sprecare il suo tempo prezioso per favorire dei fratelli meno fortunati, è tale generosità che, secondo me, spiega l’inaudito successo ch’egli ebbe, poiché ogni altra sua parola, tutte quelle che compongono la sua vasta opera, furono espresse dallo stesso grandissimo animo.

La mia fortuna non s’arrestò qui: uomini del valore di Beniamino Crémieux e Valery Larbaud mi regalarono il loro tempo e il loro affetto. Cosi poté avvenire che quasi metà del numero del I° Febbraio dell’anno scorso della rivista Le Navire d’Argent poté essere dedicata a me. Il Crémieux vi pubblicò uno studio sui miei tre romanzi e la traduzione di alcuni capitoli de La Coscienza di Zeno e il Larbaud quella di parte di due capitoli di questa vecchia Senilità. La predilezione del Larbaud per questo romanzo me lo rese subito caro come nel momento stesso in cui l’avevo vissuto. Lo sentii subito nettato da un disprezzo durato per trent’anni, cui io, per debolezza, avevo finito con l’associarmi.

L’articolo del Crémieux – una pietra miliare nella mia vita suscitò, a sua e anche mia grande sorpresa, qualche sdegno da noi. Non potevamo non sorprendercene essendo recenti della commossa prefazione del Larbaud al libro del Dujardin.

Invece debbo confessare che nel mio animo non c’è alcun rancore per la critica nostra perché per tanti anni m’ignorò. Prima di tutto è vero che vi sono alcune ragioni che spiegano tale oblio. Eppoi di rancore non si può parlare visto che Silvio Benco e Ferdinando Pasini contano in tale critica. Il Benco, che mi concesse la sua amicizia fin dalla sua prima giovinezza, dedicò un articolo, di cui sempre m’onoro, a La Coscienza di Zeno subito dopo la pubblicazione, nel 1923. Ferdinando Pasini, nell’Agosto del 1924, mi sorprese con un articolo ne La Libertà di Trento che alleviò quella dolorosa solitudine ch’è la sorte di tanti nostri scrittori quando hanno tentato di arrivare al pubblico. La benevolenza del Pasini m’incantò perché dovetti considerarla risultata da un puro giudizio critico. Di lui io sapevo solo ch’egli insegnava a tanti con la parola e con l’esempio, mentre di me, prima di allora, egli non aveva conosciuto neppure il nome. La nostra amicizia s’iniziò col suo articolo.

Ma per ritornare a Senilità debbo dire ch’essa da noi trovò un acuto e affettuoso critico in Eugenio Montale che pubblicò uno studio a me dedicato nell’Esame (Novembre-Dicembre del 1925). E’ questo il mio miglior lavoro ed è vantaggioso per me che chi legge di Zeno abbia conosciuto il Brentani? Amerei di poterlo credere. Intanto, mio giovine e pensoso amico, grazie per tanto studio e tanto amore.

Pensa Valery Larbaud che il titolo di questo romanzo non sia quello che gli competa. Anch’io, che so ormai che cosa sia una vera senilità, sorrido talvolta di aver attribuito ad essa un eccesso in amore. Eppure, per non conformarmi neppure ad un consiglio del Larbaud ch’è non solo l’autore che tutti sanno ma anche il lettore più ardente (l’aggettivo s’appropria all’autore di Ce vice impuni, la lecture) e ch’è perciò colui che sa, per propria genialità e per la pratica del pensiero di tanti grandi, come un libro debba essere presentato, devo avere dei motivi fortissimi. Mi sembrerebbe di mutilare il libro privandolo del suo titolo che a me pare possa spiegare e scusare qualche cosa. Quel titolo mi guidò e lo vissi. Rimanga dunque così questo romanzo che ripresento ai lettori con qualche ritocco meramente formale.

Trieste, li 1 Marzo 1927.

I

Subito, con le prime parole che le rivolse, volle avvisarla che non intendeva compromettersi in una relazione troppo seria. Parlò cioè a un dipresso così: – T’amo molto e per il tuo bene desidero ci si metta d’accordo di andare molto cauti. – La parola era tanto prudente ch’era difficile di crederla detta per amore altrui, e un po’ più franca avrebbe dovuto suonare così: – Mi piaci molto, ma nella mia vita non potrai essere giammai più importante di un giocattolo. Ho altri doveri io, la mia carriera, la mia famiglia.

La sua famiglia? Una sola sorella non ingombrante né fisicamente né moralmente, piccola e pallida, di qualche anno più giovane di lui, ma più vecchia per carattere o forse per destino. Dei due, era lui l’egoista, il giovane; ella viveva per lui come una madre dimentica di se stessa, ma ciò non impediva a lui di parlarne come di un altro destino importante legato al suo e che pesava sul suo, e così, sentendosi le spalle gravate di tanta responsabilità, egli traversava la vita cauto, lasciando da parte tutti i pericoli ma anche il godimento, la felicità. A trentacinque anni si ritrovava nell’anima la brama insoddisfatta di piaceri e di amore, e già l’amarezza di non averne goduto, e nel cervello una grande paura di se stesso e della debolezza del proprio carattere, invero piuttosto sospettata che saputa per esperienza.

La carriera di Emilio Brentani era più complicata perché intanto si componeva di due occupazioni e due scopi ben distinti. Da un impieguccio di poca importanza presso una società di assicurazioni, egli traeva giusto il denaro di cui la famigliuola abbisognava. L’altra carriera era letteraria e, all’infuori di una riputazioncella, – soddisfazione di vanità più che d’ambizione – non gli rendeva nulla, ma lo affaticava ancor meno. Da molti anni, dopo di aver pubblicato un romanzo lodatissimo dalla stampa cittadina, egli non aveva fatto nulla, per inerzia non per sfiducia. Il romanzo, stampato su carta cattiva, era ingiallito nei magazzini del libraio, ma mentre alla sua pubblicazione Emilio era stato detto soltanto una grande speranza per l’avvenire, ora veniva considerato come una specie di rispettabilità letteraria che contava nel piccolo bilancio artistico della città. La prima sentenza non era stata riformata, s’era evoluta.

Per la chiarissima coscienza ch’egli aveva della nullità della propria opera, egli non si gloriava del passato, però, come nella vita così anche nell’arte, egli credeva di trovarsi ancora sempre nel periodo di preparazione, riguardandosi nel suo più segreto interno come una potente macchina geniale in costruzione, non ancora in attività. Viveva sempre in un’aspettativa non paziente, di qualche cosa che doveva venirgli dal cervello, l’arte, di qualche cosa che doveva venirgli di fuori, la fortuna, il successo, come se l’età delle belle energie per lui non fosse tramontata.

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